Le violenze di Gaza lacerano il tessuto sociale israeliano di Davide Lerner
in “Domani” del 13 maggio 2021
Le scene di questi giorni sono destinate a minare la coesione sociale interna di Israele, soffiando nelle vele dei politici di destra che da sempre considerano la minoranza una “quinta colonna”. Eppure la fase in corso sembrava promettere sviluppi di senso opposto. I partiti dell’opposizione anti Netanyahu erano vicini a un accordo con i rappresentanti delle formazioni arabe per formare un governo che, dopo 13 anni consecutivi di al potere, avrebbe scalzato Bibi. In Israele, dove il coinvolgimento politico ad alto livello della compagine araba è più unico che raro, sarebbe stato un evento storico, ma è divenuto impensabile con la guerra in corso.
Anche il processo dei cosiddetti accordi di Abramo, e la normalizzazione dei rapporti fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, stavano favorendo la convivenza interna. Lo stesso Netanyahu, che negli anni si è reso protagonista di uscite dure contro la minoranza araba, durante un discorso lo scorso gennaio a Nazareth aveva dichiarato: «Se arabi ed ebrei possono danzare insieme nelle strade di Dubai, possono danzare anche qui, nello stato di Israele». Dopo le transenne disposte dalla polizia in pieno Ramadan alla porta di Damasco a Gerusalemme, i raid sulla Spianata delle moschee, la minaccia delle espulsioni nel quartiere di Sheikh Jarrah e l’escalation con Gaza, invece si parla di guerra civile.
Un mese di violenze, dalle strade di Gerusalemme ai cieli di Gaza di Pierre Haski
in “www.internazionale.it” del 12 maggio 2021
Sul fronte israeliano c’è un vuoto di potere nonostante tre elezioni nell’arco di poco tempo. Benjamin Netanyahu dovrebbe limitarsi agli affari correnti, eppure ha il potere di decidere se fare la guerra e la pace.
Sul versante palestinese il vuoto è ancora più sorprendente. Da quindici anni i palestinesi sono divisi tra la Striscia di Gaza, controllata dagli islamisti di Hamas, e l’Autorità palestinese in Cisgiordania, guidata da un Abu Mazen, il cui mandato è terminato da tempo, così come il suo credito politico.
Scatenando la battaglia a partire dal suo feudo, Hamas rivendica la leadership palestinese e prova ad approfittare dell’indebolimento del suo rivale storico, Al Fatah, la formazione in passato guidata da Yasser Arafat e ormai senza un capo né un progetto politico.
I giovani palestinesi, dal canto loro, non hanno fiducia in questi partiti che non sono in grado di offrirgli un futuro. Ma il rifiuto di un’occupazione senza speranze e senza fine assume la forma di un’ondata di violenza di cui nessuno può prevedere la fine.
Luoghi di Dio e di pace non campi di battaglia di Marco Impagliazzo
in “Avvenire” del 13 maggio 2021
Un nuovo conflitto tra Israele e palestinesi, iniziato con i disordini sulla Spianata del Tempio a Gerusalemme, davanti alle moschee di al-Aqsa e della Cupola della Roccia? Inaccettabile davvero. I luoghi santi e tutti i luoghi sacri dedicati alla preghiera: che si tratti di sinagoghe, chiese e moschee devono essere risparmiati dal conflitto, sempre. Troppe volte negli ultimi decenni abbiamo tristemente assistito a ripetuti attacchi contro le sinagoghe, anche in Europa, alla devastazione dei cimiteri ebraici, così come delle chiese in Iraq e in Africa per mano di jihadisti e, insieme, alla distruzione delle moschee, come a Sarajevo durante la guerra o ancora in Iraq o in India. In ogni parte del mondo attacchi terroristici hanno ferito i luoghi dove gli uomini e le donne pregano. Sono luoghi dove si cerca, nel profondo, una via di pace e di consolazione in un mondo in cui le manipolazioni della religione sono ormai quotidiane.
La ripresa violenta dello scontro tra Gaza e Israele, in una incertezza politica che rende più fragile la coabitazione, rischia di incendiare anche altre aree dell’area che, fino a oggi, erano rimaste tranquille anche nei momenti di scontro più duri. Purtroppo colpisce anche i luoghi religiosi che normalmente non erano mai stati coinvolti come la sinagoga di Lod, attaccata e data alle fiamme ieri. Questo va rifiutato a tutti i costi: non si può calpestare il sentimento religioso dei popoli, per un conflitto che – lo sappiamo ormai bene da decenni – è tutto politico. I sentimenti religiosi possono essere una riserva di speranza, oltre la politica. Le persone e i popoli infatti non sono fatti soltanto di bisogni e interessi materiali, né sono tenuti assieme solo da collanti ideologici o patriottici o da passioni politiche: sono anche abitati da profondi e comuni sentimenti religiosi che si radicano in secoli – talvolta millenni – di fede e di cultura.
Il sostegno a una causa, come quella palestinese in questo caso, non può diventare la demonizzazione d’Israele e degli ebrei. È un corto circuito che si ripete da anni con conseguenze tragiche.
( …)
Nel Documento sulla Fratellanza Umana firmato da papa Francesco e dal grande imam al-Tayyeb è scritto: «La protezione dei luoghi di culto (...) è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli (...) è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni». Un mondo senza sinagoghe, chiese e moschee non sarebbe un mondo migliore ma più arido e con meno speranza. È ora di smetterla di coinvolgere nei conflitti i luoghi religiosi e della preghiera perché sia preservata l’anima di umanità e di pace che rappresentano.
La coabitazione, il vivere insieme, non è solo qualcosa da sopportare come una fatalità: è anche il pegno di una società più democratica. Le tentazioni omologanti sono pericolose per ogni società: la ricerca del nemico abbaglia e si finisce per dividersi all’infinito. Oggi l’opzione necessaria è favorire il dialogo a tutti i livelli, anche interreligioso, per evitare il radicalizzarsi dei contrasti tra le persone e tra i popoli. È ciò che auspichiamo avvenga per israeliani e palestinesi. Dopo tante sofferenze, dopo i morti di questi giorni, siamo sempre più convinti che un conflitto che, attraverso varie fasi, dura dal 1948, debba approdare allo stabilimento della pace. Utopico? Forse, ma sempre più necessario.
Grossman "A rischio il fragile equilibrio di Israele così perdiamo tutti"
intervista a David Grossman a cura di Francesca Caferri
in “la Repubblica” del 13 maggio 2021
Ansia. Delusione. Amarezza. E anche paura: c’è tutto questo nella voce di David Grossman, uno dei maggiori scrittori israeliani contemporanei, quando risponde al telefono dalla sua casa non lontano da Gerusalemme.
«Abbiamo avuto quattro esplosioni abbastanza vicine da sentirle con chiarezza. Vicinissime a luoghi dove ci sono mio figlio, mia nipote, alcuni amici. Ho 67 anni e ho vissuto diverse situazioni estreme: ma questa è una delle peggiori».
Grossman, lei è un attento osservatore della realtà del suo Paese: riesce a spiegarci come ha fatto la situazione a precipitare tanto in fretta?
«Se guarda alle operazioni militari a cui abbiamo assistito dal 2006 ad oggi, sono tutte nate in fretta. È un accumularsi di minacce, rabbia, frustrazione: a un certo punto scoppia e ci troviamo improvvisamente nel mezzo di un’operazione militare. O di una vera guerra. La spiegazione è logica, ma non basta per smettere di chiedersi come sia possibile che dopo tutti questi anni siamo ancora prigionieri di questo circolo vizioso, senza che si intraveda una via d’uscita».
Questa volta però c’è un elemento diverso: gli scontri fra cittadini arabi israeliani e cittadini ebrei israeliani sono a un livello mai raggiunto prima.
«È una situazione estremamente pericolosa: quando parliamo di arabi israeliani, parliamo di un quinto della popolazione israeliana. Persone che sulla carta hanno tutti i diritti, ma che nella realtà si vedono negate moltissime cose: basti pensare alla legge che dichiara Israele Stato nazione degli ebrei e che fa degli arabi quasi cittadini di serie B. O al bilancio dello Stato, che non stanzia mai per queste comunità fondi sufficienti per combattere criminalità e violenza: magari perché fa comodo a molti che la comunità araba sia afflitta da questi problemi. E poi ci sono eventi come la marcia che celebra il Giorno di Gerusalemme, in cui i partecipanti danzano con bandiere di Israele dentro la Città vecchia: è come se facessimo qualunque cosa possibile per provocare i palestinesi e dimostrare loro quanto siamo forti noi e quanto sono deboli loro. Lunedì scorso Benjamin Netanyahu ha ordinato di cancellare la marcia solo all’ultimo minuto: ma l’incendio era già acceso e le scintille si sono diffuse. Hamas le ha colte come pretesto per dichiararsi protettore di Gerusalemme e ha appiccato il fuoco. È una violenza orribile quella di cui mi chiede perché spezza ogni idea di coesistenza, il sottile filo che si era creato negli anni e che faceva pensare che gradualmente saremmo riusciti a vivere l’uno accanto all’altro. Per la prima volta dopo le ultime elezioni un partito arabo era nella posizione di poter influenzare la scelta su chi sarebbe stato primo ministro. Un segnale importante, ma non è bastato».
Perché? In fondo, il successo del partito islamista Raam è stato il vero elemento di novità dell’ultimo voto...
«Dobbiamo guardare al fenomeno globale. E il fenomeno globale ci dice che, dopo 73 anni dalla creazione dello Stato di Israele, la maggioranza ebraica ha generosamente concesso a un partito arabo-israeliano di giocare un ruolo nella costituzione di una coalizione. È una cosa ridicola: ci abbiamo messo 73 anni a legittimare i nostri concittadini. E non è neanche una posizione condivisa da tutti: quante volte in questi mesi abbiamo sentito le parole: "Mai con l’appoggio degli arabi". Ora chiunque abbia aperto alla possibilità di collaborare con loro è accusato di essere un traditore».
Questa posizione però è il risultato anche di anni di assenza di dibattito pubblico: la soluzione dei due Stati è tramontata, ma al suo posto non si è affermata un’idea alternativa. Il dibattito fra i due lati si è fermato, è come se anche chi come lei per anni ha parlato di pace avesse perso la speranza: è così?
«Abbiamo parlato per decenni con i palestinesi e non siamo arrivati da nessuna parte. Chi per anni ha sostenuto il dialogo è stato delegittimato dall’assenza di risultati e oggi è visto come una sorta di traditore. Da entrambi i lati, crescono solo gli elementi più violenti ed estremisti. Si nutrono l’uno
dell’altro: ogni volta che c’è un conflitto lo usano per legittimare le loro posizioni estremiste».
Ha visto tante crisi simili, come crede che finirà questa?
«Per esaurimento, come sempre. Uno dei due lati a un certo punto non ce la farà più e inizierà una mediazione: bisognerà solo vedere quante persone moriranno nel frattempo. In una situazione che avrebbe potuto essere prevenuta».
All’inizio di questa intervista, lei ha parlato di paura: vorrei chiudere chiedendole qual è oggi la sua paura maggiore.
«È facile risponderle. Vedo il fragile equilibrio su cui si basa la società israeliana a rischio oggi: e so che se non riusciremo ad arrivare a uno Stato in cui le due comunità si sentiranno a casa, perfettamente uguali, e potranno contare sul fatto che le loro vite hanno lo stesso peso sulla bilancia, avremo perso tutti. Solo se la minoranza araboisraeliana si sentirà protetta e la maggioranza di religione ebraica non minacciata, ci sarà la possibilità di creare qualcosa di valore e si ridurrà lo spazio per la violenza. Da entrambe le parti. È il mio sogno, la mia speranza, e oggi il mio timore maggiore è che si spezzi».
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