Un interessante articolo di Redaelli che guarda a come costruire la pace in Palestina

Richiamare svogliatamente i termini ormai vetusti degli Accordi di Oslo del 1993, come fa la comunità internazionale, non serve a fermare la deriva massimalista, che aumenta il ricorso alla violenza fra i palestinesi e fomenta le pulsioni scioviniste e le tentazioni 'coloniali' che sembrano essere sempre più forti in Israele. Bisogna, al contrario, con testardaggine, ripartire dal proteggere le popolazioni civili e i loro diritti di base; dal rilanciare esperienze di incontro e di creazione di fiducia a ogni livello, da quello formale politico a quello quotidiano dei semplici cittadini. Consapevoli che non vi può essere vera sicurezza senza rispetto dei diritti e senza libertà. Per tutti.


di Riccardo Redaelli

in “Avvenire” del 18 maggio 2021

Di notte tutti i gatti sono bigi, si suole dire. E in questo terribile, infinito buio dei continui bombardamenti fra Gaza e Israele, anche le posizioni e gli atteggiamenti dei due popoli sembrano schiacciati sulle medesime posizioni. Ma non lo sono: vi sono diversità di vedute e di aspirazioni sia all’interno del popolo palestinese sia tra gli israeliani, e devono essere evidenziate, senza cadere – come fanno in troppi – in visioni manichee e stereotipate, utili soltanto a giustificare i pregiudizi ideologici.

In tanti ripetono, come un mantra, che 'Israele ha il diritto di difendersi': osservazione perfino lapalissiana, ma che non spiega cosa significhi difendersi. Basta leggere i quotidiani israeliani più liberal, o ascoltare la voce di tanti intellettuali di quel Paese, per capire che i bombardamenti sulla popolazione civile di Gaza non sono percepiti come 'difesa'. Se il premier Netanyahu – abbarbicato al suo ventennale potere e a rischio di processi per corruzione – segue una linea politica che fa perno ormai solo sulla contrapposizione e sulla demonizzazione degli 'arabi' e su di una politica di 'colonizzazione' strisciante delle aree palestinesi più strategiche, molti israeliani rifiutano di seguirlo verso quella che è stata definita «una guerra civile fra cittadini israeliani, ebrei e arabi». Lo scrittore Daniel Grossman, che ha perso un figlio nella guerra del 2006 contro Hezbollah, sottolinea come Israele, dopo settant’anni, non abbia ancora pienamente accettato i suoi cittadini di origine araba. Nonostante molti di essi abbiamo lavorato duramente negli ospedali e nelle farmacie per combattere la pandemia di Covid-19, salvando vite di arabi e di ebrei indistintamente. Solo poche settimane prima dello scoppio di questo nuovo sanguinoso conflitto, ben il 48% degli elettori israeliani si dichiarava favorevole a un nuovo governo con il sostegno dei partiti arabi.

Idea ora demonizzata da Netanyahu, ma che mostra la progressiva crescita di consapevolezza politica degli arabi d’Israele che sono ora finalmente più organizzati nell’arena politica.

Allo stesso modo, sarebbe assurdo voler ridurre le posizioni di tutti i palestinesi a quelle di Hamas o della Jihad islamica, che vagheggiano la distruzione dello Stato ebraico: per quanto la durezza dell’occupazione israeliana nei Territori Occupati e la crescita demografica delle componenti ebraiche più ortodosse e meno aperte, così come la catastrofica inadeguatezza e corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese esasperi le relazioni e favorisca le narrative estremiste, vi sono ancora visioni moderate e realiste. Come quelle delle comunità cristiane, che si adoperano per evitare che le uniche scelte a disposizione di questo popolo così duramente trattato nelle dinamiche storiche siano o il nichilismo violento dell’islamismo radicale o la perdita di ogni prospettiva futura.

E per quanto minoritari, pur apparentemente travolti dal fallimento del processo di pace avviato nel lontano 1993, non vanno dimenticati i tanti progetti e tentativi di vivere in armonia, di pacifica coesistenza fra le due comunità: dalla gestione comune delle acque, ai programmi di incontro fra i giovani delle due comunità, per raccontare le loro esperienze e per vivere la rispettiva percezione dell’Altro, agli insediamenti misti. Sforzi per superare le incomprensioni e le diffidenze che rischiano di essere spazzati via dalla brutalità della violenza voluta ed esibita di questi giorni.

Richiamare svogliatamente i termini ormai vetusti degli Accordi di Oslo del 1993, come fa la comunità internazionale, non serve a fermare la deriva massimalista, che aumenta il ricorso alla violenza fra i palestinesi e fomenta le pulsioni scioviniste e le tentazioni 'coloniali' che sembrano essere sempre più forti in Israele. Bisogna, al contrario, con testardaggine, ripartire dal proteggere le popolazioni civili e i loro diritti di base; dal rilanciare esperienze di incontro e di creazione di fiducia a ogni livello, da quello formale politico a quello quotidiano dei semplici cittadini. Consapevoli che non vi può essere vera sicurezza senza rispetto dei diritti e senza libertà. Per tutti.

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