Gerusalemme: la polveriera descritta da Gad Lerner, Abraham Yehoshua e Zvi Sculdiner

                             Gerusalemme: lo sfratto che calpesta la storia

                                                                    di Gad Lerner


in “il Fatto Quotidiano” del 10 maggio 2021

Ieri lo sfratto di Sheikh Jarrah è stato sospeso in extremis, anche se non ancora revocato. La Corte Suprema d’Israele ha deciso di rinviare la seduta che doveva tenersi oggi, in una non voluta coincidenza con la marcia celebrativa della riconquista di Gerusalemme est nel 1967, divenuta festa nazionale: il Jerusalem Day.

La tensione è montata alle stelle, da giorni la protesta araba dilaga in scontri con la polizia e con manipoli dell’estrema destra ebraica. L’oggetto del contendere è altamente simbolico della sovranità contesa fra concittadini divisi per appartenenza etnica e religiosa: la proprietà delle case.

Carte alla mano, risalenti al mandato britannico antecedente la fondazione d’Israele, una società immobiliare ultraortodossa pretende la restituzione di alloggi che alcune famiglie ebraiche furono costrette a lasciare nel 1948. Settantatré anni dopo i tribunali le hanno dato ragione, disponendo l’allontanamento forzato dei palestinesi che da allora vi risiedono. La destra religiosa le sostiene, mentre da sinistra si denuncia il pericolo di una “giudaizzazione forzata” nel cuore di un quartiere arabo.

La pretesa di convalidare contratti del tempo che fu, è un’arma a doppio taglio. Difatti, se questo principio venisse applicato da ambo le parti, ne uscirebbe legittimata anche l’impossibile pretesa palestinese di un “diritto al ritorno” per le centinaia di migliaia di residenti arabi le cui abitazioni vennero occupate da ebrei. Ma naturalmente è a senso unico che il governo intende applicare questa regola, rendendo plateale la riduzione dei gerosolomitani arabi a cittadini di serie B.

La Legge Fondamentale del 2018 che definisce Israele “Stato-nazione del popolo ebraico” trova così un’applicazione, tuttora controversa, che calpesta la realtà storica e fomenta un conflitto devastante.


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Yehoshua e Israele "Polveriera in fiamme. L'escalation a Gerusalemme compromette la pace"


intervista a Abraham Yehoshua, a cura di Francesca Paci

in “La Stampa” del 9 maggio 2021

Dall'appartamento di Tel Aviv dove si è trasferito dopo la scomparsa della moglie per stare più vicino ai figli, lo scrittore Abraham B. Yehoshua riceve le notizie degli scontri di Gerusalemme come un'eco antica, la condanna di una città in cui anche nei cimiteri che attendono il giudizio universale si guerreggia per un metro di terra. In pochi giorni le scintille accese dal ricorso di alcune famiglie arabe minacciate di sfratto per le rivendicazioni di un gruppo della destra ebraica sono diventate fiamme. Il bilancio, per il momento, è di 200 palestinesi e 17 poliziotti israeliani feriti, ma la rabbia monta e si avvicina il redde rationem di domani, lunedì 10 maggio, il giorno in cui Israele celebra il cosiddetto "Jerusalem Day", la riunificazione con la parte est avvenuta in seguito alla sconfitta della Giordania nel 1967. Intorno c'è la palude in cui i palestinesi, lontani dalle urne dal 2006, vedono le elezioni rinviate ancora una volta dall'incerto presidente Abu Mazen e ci sono le ambizioni territoriali denunciate poco più di un anno fa dallo stesso Yehoshua che, invano, aveva chiesto all'Unione Europea di far desistere i propri connazionali dal piano di annessione di una parte della Cisgiordania. L'ultimo, dice, di una lunga serie. Allora non si fece nulla e oggi ne vediamo «le conseguenze a Sheikh Jarrah».

Ci spiega cosa sta succedendo a Gerusalemme e come si è arrivati ancora una volta sul bordo del precipizio?

«Ci sono due questioni in questa vicenda, una prettamente storica e una politica. Dal punto di vista storico quelle case contese nel quartiere di Sheikh Jarrah sono abitate da famiglie arabe ma appartengono agli ebrei che le avevano acquistate molto tempo prima della nascita dello Stato d'Israele e della guerra dei sei giorni con la successiva divisione di Gerusalemme. Dal punto di vista politico invece, la prospettiva è ribaltata: nel '48 prima e nel '67 poi molti ebrei occuparono le dimore degli arabi in fuga e quelle dimore non sono mai state restituite. In alcuni casi, numericamente minori, accadde l'inverso. Mi chiedo però che senso abbia oggi andare a bussare con il contratto in mano a quelle porte gettando benzina sul fuoco di un conflitto mai spento. È una provocazione che sabota il già compromesso processo di pace».

Le forze di sicurezza israeliane denunciano il rischio di una escalation. Sta veramente per succedere di nuovo?

«Temo anche io che la situazione possa precipitare, la tensione è alta, siamo alla fine del Ramadan, i fedeli alla Spianata delle moschee e gli altri al monte del tempio, Gerusalemme è una polveriera. Alla fine a dire l'ultima parola sarà la Corte, ritengo però un'ingiustizia che quelle quattro o cinque famiglie arabe debbano andarsene. È sbagliato ed è il modo attraverso cui gli ebrei stanno penetrando nei quartieri arabi anziché rispettare la divisione tra le due zone. Chi fa pressione sono i più estremisti, i coloni irriducibili al sogno della Grande Israele, e il governo dovrebbe dire loro che se per quasi un secolo nessuno ha rivendicato quelle proprietà è assurdo alzare la voce adesso». 

Cosa fa il governo israeliano in questo momento, dopo aver celebrato il trasferimento dell'ambasciata americana nella Gerusalemme riconosciuta come capitale dello Stato d'Israele?

«L'unificazione di Gerusalemme è un fatto grave e non andrebbe aggravato. Se il governo fosse ragionevole spingerebbe gli ebrei che hanno aspettato a rivendicare le loro case per più di 70 anni a fare un passo indietro, almeno fino a una soluzione complessiva. Invece no, il governo è fuori gioco. Il premier Bibi Netanyahu provoca a suo modo, come ha sempre fatto, ma almeno, in questo momento, con il presidente Rivlin che ha consegnato il mandato di formare il nuovo governo al leader dell'opposizione Lapid c'è la speranza di un cambiamento positivo, la prospettiva di un ritorno a una strategia di pace».

È rimasto ottimista anche quando la vista era annebbiata dal sangue della seconda intifada, i morti di entrambe le parti, le macerie di Gaza. Lo è ancora oggi che gli israeliani non sognano più la realizzazione degli accordi di Oslo e i palestinesi sono divisi anche sul voto rinviato dal presidente Abu Mazen. Non crede che sia troppo tardi e che il treno della riconciliazione sia passato una volta per sempre?

«Non so bene cosa stia accendo sul fronte palestinese. So però per certo che questa nuova escalation pretestuosa sulle case di Sheikh Jarrah rafforza Hamas, fornisce elementi ai più radicali nemici del processo di pace, a Gaza e non solo. So che quegli ebrei lì chiedono indietro le abitazioni originarie pur essendo stati compensati a suo tempo con altre proprietà mentre gli arabi espropriati non hanno mai avuto indietro niente. So che non va bene così e bisogna rasserenare gli animi al più presto». 

Che ruolo hanno in questo momento gli Stati Uniti che negli ultimi squarci della presidenza Trump sono stati promotori degli Accordi di Abramo, la storica stretta di mano tra Israele e i Paesi del Golfo?

«Mi sfugge come si stia muovendo in queste ore l'America nei confronti della nostra regione. So che, come l'Unione Europea, sta invitando alla calma. Ma ho l'impressione che dalle parti di Dubai non siano per niente soddisfatti degli scontri sulla Spianata delle moschee e che si debba intervenire per evitare che Sheikh Jarrah diventi uno di quei simboli di cui siamo tristemente pieni, quelli di cui poi non ci si libera facilmente».


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Una escalation di pulizia etnica


di Zvi Sculdiner

in “il manifesto” del 9 maggio 2021

A Gerusalemme gli scontri tra polizia e palestinesi sono andati avanti fino a mezzanotte di venerdì, non solo nel quartiere di Sheikh Jarrah ma anche sulla spianata della moschea di al-Aqsa. E la protesta è continuata nella notte e ieri.

La polizia israeliana, entrata anche nella moschea, parla di 17 agenti feriti negli scontri; fonti palestinesi riferiscono di 205 feriti fra i manifestanti, 88 dei quali hanno dovuto essere ricoverati in ospedale.

L’irruzione della polizia israeliana nella moschea ha scatenato forti reazioni da parte dei paesi arabi – Giordania, Qatar e altri -, e ha sollevato preoccupazioni anche a Washington e nelle capitali europee, che hanno chiesto moderazione a entrambe le parti. Le manifestazioni a Sheikh Jarrah sono significative perché l’espulsione «legale» di decine di famiglie palestinesi dalle case nelle quali hanno vissuto per decenni è la concretizzazione brutale dell’apartheid a Gerusalemme. E anche l’ingresso della polizia nella moschea, la mobilitazione dei circoli islamici e l’eco della vicenda a Gaza evidenziano il carattere esplosivo della situazione.

Il presidente palestinese Abu Mazen, circondato da una leadership problematica e in parte corrotta, non pensava di essere così impopolare e ha «scoperto» che se andasse alle elezioni le perderebbe a favore di Hamas o di esponenti dell’opposizione. Abu Mazen attribuisce a Israele la colpa della necessità di rinviare l’appuntamento elettorale.

Nel sud di Israele la tensione è già enorme. Hamas e Jihad islamica minacciano di riprendere il lancio di missili se Israele continua con l’ebraicizzazione di Gerusalemme. Egitto, Qatar e altri paesi cercano di neutralizzare le minacce. Nel frattempo i palestinesi lanciano palloncini incendiari, a mo’ di avvertimento.

Lunedì Israele celebrerà la giornata di Gerusalemme. In una città divisa da un muro invisibile ma molto reale, gli ultranazionalisti festeggeranno e l’estrema destra riprenderà le sue classiche manifestazioni. Come negli anni passati, la polizia non si impegnerà troppo per fermare gli estremisti che ripeteranno «morte agli arabi» e altri slogan, attaccando i palestinesi, ritenuti invariabilmente «sospetti».

Ma che cosa succede a Sheikh Jarrah? Con il conflitto del 1948, guerra di liberazione per gli israeliani e Nakba (catastrofe) per i palestinesi, Gerusalemme venne divisa. Di lì a poco, venne varata una delle prime – problematiche – leggi, quella sulle proprietà degli assenti, che conferiva a un’amministrazione il compito di gestire le proprietà in questione per un determinato periodo, alla fine del quale sarebbe avvenuta la restituzione ai proprietari legali. Nel 1953, la legge sull’espropriazione delle terre ribadì la condizione; i principali interessati (danneggiati) erano i palestinesi, presenti o assenti.

Specialmente in tre quartieri di Gerusalemme, Talbia, Baka’a e Katamon, si concentrano le proprietà lasciate dai palestinesi, in particolare dall’élite cristiana, al momento della fuga o dell’espulsione. Vicino alla residenza del presidente israeliano si trova la sontuosa villa dei Salameh. Questa famiglia palestinese greco-ortodossa, fra le più ricche del paese, fuggì all’inizio del 1948 ma affittò la villa al consolato belga che vi risiede tuttora. Il resto dei beni palestinesi passava nelle mani dell’amministrazione delle proprietà degli assenti, che man mano trasferiva case e palazzi agli israeliani. Inizialmente alcuni edifici venivano assegnati a famiglie israeliane che vivevano in modo molto modesto, ricevendo una o due stanze. Ma alla fine i poveri venivano cacciati e sontuose residenze passavano in mani private. Nessun palestinese oggi può rivendicare una proprietà confiscata.

A Gerusalemme Est, sono i giordani a rilevare le proprietà degli ebrei fuggiti, e ad affittarle a palestinesi. Dopo il 1967 si consente la restituzione degli immobili ai proprietari israeliani, ebrei. Diverse organizzazioni di estrema destra iniziano un lento lavoro di recupero dei beni, per l’ebraicizzazione di Gerusalemme. Le famiglie palestinesi, ricche o povere, cominciano a perdere le case in cui hanno vissuto per decenni a Sheik Jarrah, Silwan e altri quartieri.

Appoggiati da progressisti israeliani, i palestinesi hanno lottato a lungo invano nei tribunali. Adesso l’estrema destra è l’alleata dei coloni che hanno occupato gli edifici. Gli scontri saranno inevitabili. La spoliazione per legge (con Israele che ripete «abbiamo un nostro sistema legale e la Corte internazionale di giustizia non deve intervenire») andrà avanti e altri palestinesi saranno da annoverarsi fra le vittime dirette dell’occupazione. Netanyahu o il suo possibile successore dovranno affrontare una situazione di caos, fomentata non solo dagli estremisti di destra. Ecco all’opera il sistema legale dell’occupazione. Eventuali cambiamenti di governo non saranno una risposta sufficiente per contrastare l’operato di elementi razzisti e parafascisti, che lentamente ma inesorabilmente continuano la loro guerra contro la presenza palestinese. Nella città – nella quale il governo israeliano domani celebra il «giorno di Gerusalemme». E in tutto il Paese.

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