Nel sacramento della penitenza si viene riabilitati al “fare penitenza” che accompagna la vita del cristiano. Il sacramento è “processo di superamento della scomunica”, che riconsegna il soggetto alla dimensione orante, battesimale ed eucaristica della riconciliazione. La tradizione ha individuato nel sacramento 4 soglie significative. Una è la “parola di perdono” che viene rinnovata dal ministro e che scende sul soggetto peccatore penitente. Le altre 3 sono elaborazioni del soggetto, che confessa il peccato, insieme alla fede e alla lode; che prova dolore nel cuore per il peccato commesso; che lavora sulla sua libertà, mettendo in gioco il suo corpo, la sua parola, i suoi desideri, le sue priorità. Notevole è il fatto che, come sottolineato con cura dalla tradizione, questa “elaborazione” che il soggetto compie della propria identità, sia stratificata su tre livelli: quello della “azione corporea” e lo chiamiamo “penitenza o soddisfazione”; quello della verbalizzazione del peccato, e lo chiamiamo “confessione”; quello del dolore e della vergogna, che riguarda il cuore e la coscienza, e lo chiamiamo “contrizione o pentimento”.
Visibile e invisibile
E’ chiaro che la parola e la azione sono di per sé visibili, ma non così è il cuore. Non si danno “evidenze immediate” del pentimento. Proprio questa invisibilità e intangibilità del cuore, però, non è priva di indizi. Per lunghi secoli, prima che nascesse il confessionale con la grata fissa e con la invisibilità del volto del penitente, era proprio il “rossore del volto” a segnalare la vergogna e il pentimento. In seguito abbiamo proceduto “per dichiarazioni”. Al “doloro” conduce un “atto di dolore”, una sorta di “autocertificazione” di ciò che il cuore prova e che viene espresso mediante una sorta di preghiera di attestazione del travaglio interiore. Tra le parole e le cose c’è sempre un divario e sarebbe ingiusto diffidare delle prime in ragione delle seconde. Ma anche le parole, proprio perché soglie formali, hanno la loro importanza, soprattutto nell’orientare la esperienza. Gli umani, infatti, non usano le parole solo come strumenti, ma il fatto di dire con le parole induce in loro la esperienza delle “cose”. Per questo le parole hanno un peso. E scegliere una parola o un’altra non è cosa irrilevante.
Il cosiddetto “atto di dolore”
Vorrei perciò soffermarmi brevemente su una piccola e grande questione, che riguarda precisamente questa relazione tra “cuore che si pente” e “dichiarazione del penitente”. Nel rituale dopo la “confessione dei peccati” è prevista la “espressione della contrizione” da parte del penitente: egli deve dichiarare il proprio dolore per il peccato commesso. Il rituale italiano ha collocato al primo posto questa formula, dopo la quale vi sono ben altre 8 formulazioni:
Sorprende un fatto eclatante. Il rituale italiano è la traduzione del rituale latino, che presenta la stessa formula, dove tuttavia non si trova la espressione che risulta più imbarazzante. Ecco la versione dell’originale latino:
E’ chiaro che tra i due testi vi sono alcune differenze fondamentali, che vale la pena sottolineare.
La contrizione e il “fare penitenza”
La versione italiana compie tre operazioni “spericolate”. Vediamole una per una.
a) Introduce una espressione, del tutto assente dal testo latino, in cui il peccatore afferma di “meritare i castighi di Dio”. Lo spostamento del tempo – dal futuro al passato - e del soggetto – dall’uomo a Dio – è davvero sorprendente che sia stata favorita e approvata nel contesto del sacramento della penitenza. Nel sacramento, l’uomo che si castiga viene liberato dalla azione di misericordia di Dio. Un uomo che confessi a Dio di “meritare i suoi castighi” non è un penitente, ma un impenitente. Il soggetto si pente solo quando capisce che Dio vuole la sua salvezza, mentre è lui stesso a castigarsi. Singolare inversione proposta da un testo ufficiale!
b) In secondo luogo, l’italiano traduce “individualisticamente” un proposito che è squisitamente ecclesiale. Infatti la espressione “propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più” è una riduzione intimistica e ridotta della espressione latina “Fírmiter propóno, adiuvánte grátia tua, me pæniténtiam ágere“. L’aiuto di Dio è la sua “grazia” che è volta non semplicemente a “non offenderlo”, ma a “fare penitenza”: l’obiettivo non è negativo (non offendere), ma positivo (fare penitenza); non è puntuale, ma processuale. Dio inaugura e garantisce il processo con cui “non fare il male e fare il bene”.
c) Anche la chiusura suona in italiano come una semplice invocazione “Signore, misericordia, perdonami”, mentre in latino ha in sé la storia della salvezza dei “meriti di Cristo”. Ed è interessante che gli unici meriti di cui parla il testo latino siano quelli di Cristo, non quelli contratti dalle disobbedienze del peccatore, che l’italiano invece mette in rilievo con quell’infelice “ho meritato i tuoi castighi”.
Le altre formule e una traduzione “fedele”
Nel rituale italiano, in maggiore evidenza che in quello latino, a questa “prima formula” seguono altre 7, il cui carattere biblico è assai marcato. Resta il fatto per cui, di fronte ad una tale resa arbitraria del testo, non è incomprensibile desiderare, e forse pretendere, che la traduzione italiana di questa prima formula sia portata almeno al livello richiesto da “Liturgiam authenticam”: ossia che non si introduca quello che non c’è e si renda fedelmente quello che c’è. Ecco una possibile versione riportata ad un tenore verbale più convincente ed adeguato:
Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore
del male che ho fatto e del bene che non ho fatto,
perché peccando ho offeso te, infinitamente buono
e degno di essere amato sopra ogni cosa.
Mi propongo, con l’aiuto della tua grazia,
di fare penitenza e di fuggire le occasioni prossime di peccato.
Signore, per Gesù Cristo nostro Salvatore, perdonami.
(Pubblicato il 24 maggio 2021 nel blog: Come se non)
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