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Il sangue di Gaza e la sua vita impossibile

Questo articolo comparso su Limes è di Umberto De Giovannangeli giornalista, esperto di Medio Oriente e Islam, segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e, in particolare, tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente




Il sangue di Gaza chiama in causa i due “nemici” che, ognuno per i propri tornaconti, hanno lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. “Compromesso” è una parola che non esiste né nel vocabolario politico della destra israeliana né in quello di Hamas, perché implica il riconoscimento delle ragioni dell’altro. Cioè la rinuncia ai disegni di un “Grande Israele” e di una “Grande Palestina”. Cioè ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele e uno Stato indipendente per i palestinesi.

 

Combattere costa meno che fare la pace, perché “fare la pace” tra israeliani e palestinesi non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significherebbe ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri, immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e – per quanto riguarda Israele – guardare ai palestinesi come un popolo e non una moltitudine ingombrante.


Nello schema di Hamas e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in quest’ottica altro non è che un ostacolo da rimuovere con ogni mezzo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas per coltivare l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento divenuta psicologia nazionale. Quanto ad Hamas, portare ventimila persone allo scontro con l’apparato militare israeliano nella Striscia è un esercizio di potenza, la riaffermazione della propria leadership nel variegato fronte della resistenza palestinese.

 

Poco o nulla importa che a farne le spese siano milioni di personecostrette a sopravvivere in una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo.Una prigione di nome Gaza che fa periodicamente notizia quando torna a essere un teatro di guerra e si fa la conta dei morti. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente è la normalità.  Gaza muore nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas.


L’ultimo documentato grido d’allarme è stato lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando la popolazione del bene più vitale: l’acqua. A oltre due anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza reconstruction mechanism, Grm) non era riuscito ancora a rispondere ai bisogni dei quasi due milioni di abitanti (di cui il 56% minori di 18 anni) della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo. Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Le Nazioni Unite annunciavano che entro il 2020 avrebbe potuto diventare praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere ai beni più essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita. Oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riesce a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.


Questa è la vita a Gaza. Chi governa Israele e chi impone la propria legge nella Striscia lo sa bene. Come lo sa bene la cosiddetta comunità internazionale, capace solo di invitare alla moderazione o prospettare (come fa l’Onu) una commissione d’inchiesta, ripetendo una stanca litania che fa seguito all’esplosione della violenza. Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta e duratura tra pari. Non impone rinunce per ridare speranza. Costa meno combattere, perché, tanto, a chi può realmente interessare la sorte di 2 milioni di persone ingabbiate nella prigione chiamata Gaza?

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