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Un nuovo vecchio conflitto. Un equilibrato e non ideologico servizio dell'Ispi

Continua il lancio di ordigni tra Israele e Striscia di Gaza, mentre Tel Aviv studia piani per un’operazione di terra. Ma l’escalation è il risultato inevitabile di uno status quo insostenibile.


Dal sito dell'Ispi,  l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale è oggi riconosciuto tra i più prestigiosi think tank europei dedicati allo studio delle dinamiche internazionali. 

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L’escalation militare tra Israele e Hamas “non è che all’inizio”: lo hanno reso noto fonti del governo di Tel Aviv che ieri in serata ha respinto una proposta di cessate-il-fuoco avanzata da mediatori russi. In queste ore l’esercito israeliano – riferisce il Guardian – starebbe elaborando un piano per una possibile operazione di terra nella Striscia di Gaza, mentre procedono sia l’offensiva aerea sull’enclave che le raffiche di razzi sparati dal territorio palestinese verso numerose località nel sud e nel centro di Israele. Secondo il ministero della salute di Gaza almeno 83 persone sono state uccise finora nei bombardamenti, compresi 16 bambini, mentre in Israele si contano sette morti, tra cui un bambino di cinque anni, ucciso dalle schegge nella città di frontiera di Sderot. E se il conflitto – la peggiore escalation dalla guerra del 2014 – continua ad infuriare, a preoccupare è anche il moltiplicarsi di esplosioni di violenza tra cittadini ebrei e arabi israeliani in diverse città miste all’interno di Israele. Gli scontri, avvenuti a Lod, Ramle, Acco (S.Giovanni d'Acri) Jisr el Zarka, con negozi e sinagoghe date alle fiamme, sono i peggiori mai verificatisi dalla Seconda Intifada, nel2000. Nella notte di mercoledì, folle ebree di estrema destra sono scese in piazza in tutto il paese appiccando il fuoco a negozi e terrorizzando i quartieri arabi, mentre cittadini palestinesi si sono scontrati con la polizia: a Beit Yam, periferia di Tel Aviv, il video del linciaggio di un uomo da parte di estremisti israeliani dell’ultradestra ha fortemente scosso l’opinione pubblica. “Quello che sta accadendo è inaccettabile” ha twittato il premier Benjamin Netanyahu, annunciando l’invio di militari per le strade dei centri in cui si sono verificati gli scontri, aggiungendo che “niente giustifica ciò che si sta verificando, niente giustifica l’anarchia”.


Un conflitto nel conflitto?

Le dinamiche dei conflitti israelo-palestinesi degli ultimi 15 anni, da quando nel2005 Ariel Sharon decise il ritiro unilaterale da Gaza, sono pressappoco sempre uguali: cominciano con le provocazioni e gli scontri a Gerusalemme, proseguono con il coinvolgimento dei gruppi islamisti dalla Striscia, si interrompono quando le due parti ritengono di aver raggiunto il proprio scopo. Ma allora cosa rende questo conflitto diverso dai precedenti? La potenza di fuoco dei razzi che dalla Striscia sono stati lanciati verso località molto avanzate di Israele e l’allarmante coinvolgimento della popolazione araba di Israele, in scontri che rischiano di precipitare il paese in una guerra civile. “Quello che la polizia si trova ad affrontare oggi per le strade di Lod, Haifa e persino Jaffa, sono i sintomi di un problema molto più profondo: la realtà di 54 anni di occupazione” osserva Haaretz in un editoriale dal titolo eloquente: “Rimpiazzare Netanyahu oggi è più importante che mai”. Eppure, potrebbe essere proprio lui, da 15 anni consecutivi alla guida del paese – e a cui il quotidiano della sinistra israeliana attribuisce la responsabilità di aver creato i presupposti per la sollevazione delle comunità arabe che vivono in Israele – ad avvantaggiarsi dall’attuale situazione di crisi. In un paese che non si sentiva così vulnerabile da tempo, infatti, non è improbabile che il conflitto si imponga anche sulle sorti della politica, decretando il fallimento dei colloqui per la creazione di un nuovo governo trai partiti del ‘blocco del cambiamento’, guidati da Yair Lapid e Naftali Bennett. Un loro successo avrebbe di fatto spodestato ‘King Bibi’ ma in un momento di confusione come quello attuale, trasferire le redini del paese dalle mani di un premier ‘esperto’ a quelle di una coalizione che si fonda su basi incerte potrebbe non incontrare il favore di molti. E non sarebbe un caso – alla luce di questo scenario – che l’attuale primo ministro dimissionario, su cui pesa un’inchiesta per corruzione, non si sia precipitato al tavolo dei negoziati per il raggiungimento di una tregua.


Palestinesi in crisi di leadership? 

Se la crisi deflagra in un momento di impasse per la politica israeliana, le cose non vanno molto meglio dal lato palestinese. Al centro degli scontri e delle tensioni che per settimane alla Porta di Damasco, a Sheikh Jarrah, sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme, hanno anticipato l’escalation di questi giorni, è stata una nuova generazione di giovani palestinesi che non si riconosce in alcun partito o organizzazione tradizionali. L’annullamento, pochi giorni fa, della convocazione per nuove elezioni, le prime da 15 anni, previste per il 22maggio, ha acuito il malcontento e la frustrazione. “È per risolvere questa equazione a suo favore e guadagnare consenso, osserva Daniel Byman, che il movimento islamista ha giocato le sue carte”. Sfruttando la debolezza dei rivali palestinesi dell’ANP, un’organizzazione corrotta, divisa e impopolare, che ha mostrato ormai di non avere nessuna reale autorità sui territori che pretende di governare, Hamas si è eretto a difensore di Gerusalemme e dei luoghi sacri, “sperando di ottenere consensi e scrollarsi di dosso la marginalità in cui gli accordi di Abramo avevano relegato il conflitto palestinese”. In questo scenario c’è poco che il presidente palestinese possa fare: Mahmoud Abbas, 85 anni e poche chances di essere rieletto, ha scommesso tutto sui negoziati con Israele. “Faremo tutto ciò che è in nostro potere per difendere il nostro popolo” ha dichiarato ieri, ripetendo parole già troppe volte pronunciate al vento in passato per non suonare vuote. La mancanza di negoziati, o anche la possibilità di seri colloqui di pace, li inchioda a un incessante interrogativo: in che modo l’attuale classe dirigente palestinese spera, un giorno, di porre fine all'occupazione israeliana?


Una finestra di mediazione? 

Travolti dalla pandemia e da nuovi, potenziali scenari di confronto, europei e americani non hanno visto, o non hanno voluto vedere, i segnali di un rapido deteriorarsi della situazione. Che per la nuova amministrazione USA il Medio Oriente non sia una priorità era chiaro già dal fatto che il presidente Joe Biden non ha ancora nominato un inviato nella regione. A partire per cercare di calmare le acque, perciò, sarà il vice assistente del segretario di Stato americano per gli affari israelo-palestinesi, Hady Amr. Pur essendo pronto a sostenere gli accordi di Abramo promossi da Donald Trump, infatti, Biden deve tener conto delle pressioni interne ai Democratici e nell’opinione pubblica americana. A questo proposito, la stampa statunitense sta insistendo molto sulle violazioni dei diritti umani commesse da Israele ai danni dei palestinesi e sulla necessità che gli alleati americani prendano una posizione ‘coerente’ sull’argomento. Per la testata progressista ‘Vox’ quello sui palestinesi è un test che l’amministrazione Usa – che ha più volte dichiarato di voler riportare i diritti umani al centro della sua politica estera – “non può fallire”. E se in conferenza stampa il presidente americano ha ribadito che “Israele ha diritto di difendersi”, sembra chiaro che, dietro le quinte, la diplomazia si sia finalmente messa in moto. Resta solo da sperare che non sia troppo tardi. Nelle more, anche il calendario non aiuta: oggi con le celebrazioni dell’Eid al Fitr(la seconda festività più importante dell’Islam), termina il Ramadan mentre domani ricorre l’anniversario della Dichiarazione di Indipendenza di Israele, proclamata da David Ben Gurion nel 1948. Sabato, infine, i palestinesi commemorano la Nakba, la ‘catastrofe’ e l’espulsione di centinaia di migliaia di famiglie palestinesi dalle loro case e villaggi in quello che oggi è lo stato di Israele. Tutte date altamente simboliche che rischiano di alimentare l’escalation.

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