Sinodo: Post n. 3/3
Il sinodo della penitenza
di Alberto Melloni
in “la Repubblica” del 22 maggio 2021
Questa settimana ci sarà l’assemblea annuale dei vescovi italiani. Appuntamento usurato, eppure mai come stavolta decisivo per il cattolicesimo e dunque per il Paese, se è vero, com’è vero, che la Chiesa anticipa e vive sia le speranze sia i disastri che determinano poi la vita civile.
Dopo una lunga incertezza il Papa darà infatti la sua benedizione al primo sinodo nazionale italiano. Atto ancor più cruciale dopo una pandemia nella quale problemi spazzati per decenni sotto il tappeto della storia sono usciti da lì ingigantiti: la pestilenza ha infatti svelato manierismi spiritualistici, documentato predicazioni deprimenti e confermato il ciclico lambiccarsi sulla plausibilità di un partitino cattolico (nessuna) che perimetra il provincialismo cattolico. I “convegni ecclesiali”, che di quelle vere magagne e inutili rimpianti erano la culla, sono finiti: perfino il Papa, sconcertato dal disinteresse con cui è stato accolto il suo discorso al convegno di Firenze del 2015, ha dovuto prendere atto che era quel modello che produceva una sordità suppletiva fra i vescovi.
E dunque passa a un sinodo: che non è una istituzione democratica spruzzata d’acqua santa, ma un farmaco. È un farmaco omeopatico che chiede ai vescovi di diventare la cura di mali di cui sono causa: senza castelli di carta istituzionali e senza quel feticismo della vaghezza che ama far sua qualche citazione del pontefice.
Il sinodo, però, è un farmaco difficile da usare, come dimostrano i casi recenti. Il sinodo sulla famiglia del 2015 ha energizzato una destra antipapale silenziosa da un secolo. Il sinodo amazzonico del 2019 non ha potuto dare alle chiese di quelle terre i preti sposati, che Benedetto XVI ha concesso di ordinare ovunque, purché ex anglicani. Il cammino sinodale tedesco in corso è stato punzecchiato con atti, come quello sulle benedizioni delle persone gay, che delegittimano i vescovi ed esasperano i fedeli. E dunque nemmeno il sinodo italiano sarà “facile”: ma può essere fecondo, per la Chiesa e per il Paese, se individuerà registro, soggetto e tempi della sua celebrazione.
Il registro del sinodo non potrà che essere quello della penitenza. La società inviperita e impaurita che le destre palesi e occulte inviperiscono e impauriscono, è rispecchiata dalle lacerazioni della Chiesa: vescovi che si sgambettano, mediocrità intellettuali che giustamente si disistimano a vicenda, arroganze in competizione. A questo si può metter mano solo con una penitenza severa e sincera: per svelenire l’odio che percorre organi, comunità, monasteri e per far amare la fraternità. Il soggetto del sinodo non potrà che essere quello delle chiese locali. Il cattolicesimo non è una federazione di parrocchie o di movimenti o di gusti. È comunità di comunità adunate dalla parola e dalla eucarestia attorno ai successori degli apostoli nella compagnia dei poveri e dei peccatori a cui si rivolge il Vangelo. Se si vuole la sinodalità dal basso deve esser chiaro che il basso è questo e non un immaginario populismo clericale o la variante ecclesiastica della democrazia diretta.
Il tempo del sinodo è la grazia. Il sinodo non è performance, non è la stampante dei produttori seriali di “documenti” o un corso di sociologia religiosa applicata.
È tempo che serve ad individuare i nodi teologici (il ministero, il diritto delle comunità all’eucarestia, il sacerdozio comune) che sono stati o evitati o risolti con faciloneria ora tradizionalista ora modernizzante. Ma per farlo bisogna archiviare lo stolido antagonismo fra una caricatura della “dottrina”, come se essa fosse un fossile custodito nel catechismo, e la caricatura della “pastorale”, descritta come un packaging “che non tocca la dottrina”. E ritornare alla teologia roncalliana che crede che solo unità e comunione possano liberare il Vangelo e quella sua forza sanante, che oggi sembra imprigionata da narcisismi febbricitanti, politicismi banali e fervorini semplicisti. Anche sul sinodo.
(3/3 - Fine)
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