Netanyahu, Abu Mazen e Hamas beneficiano dell’inasprimento delle tensioni. I paesi arabi sostenitori degli Accordi di Abramo supereranno l’imbarazzo, mentre Erdoğan può mostrarsi interessato ai luoghi santi. Il sorriso dell’Iran. Unici sconfitti, i palestinesi.
La “crisi di Gerusalemme” e i suoi sanguinosi sviluppi a Gaza e dintorni possono apparire come l’ennesima puntata di uno scontro politico e identitario senza fine tra Israele e Palestina. Eppure il contesto locale e quello regionale offrono degli elementi inediti, che rendono gli eventi in corso parte di una dinamica dai contorni poco prevedibili.
Come in ogni inasprimento di tensione, emergono degli attori interessati a sfruttare la situazione di violenza e di radicalizzazione retorica a proprio favore. Sul piano politico interno palestinese e israeliano questi attori sono proprio quelli dominanti.
A partire dal primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu, che non riesce a imporsi nelle ripetute tornate elettorali e deve fare i conti con la presidenza di Joe Biden, intenzionata a gestire l’Iran in maniera diversa rispetto all’amministrazione precedente degli Stati Uniti d’America. In quest’ottica, sostenere l’elemento sionista più radicale e provocatore attorno a Gerusalemme è una mossa tanto consumata quanto valida per spingere il confronto sul lato dell’uso massiccio della violenza.
Quando si tratta di fare la guerra, Israele è una potenza quasi incontrastata. E certamente nei Territori palestinesi le Forze armate israeliane non hanno pari. Anche in termini di repressione poliziesca, il monopolio della forza è in mano allo Stato ebraico.
In Palestina, il rinvio delle tanto attese elezioni legislative e presidenziali sembra esser stato deciso anche per far salire al massimo la temperatura di una società allo stremo economicamente e senza prospettive sociali, priva del minimo strumento di rappresentatività e inclusione.
La questione di Gerusalemme, lasciata scoppiare nel momento di massima tensione collettiva e a pochi giorni dalla fine di Ramadan, il mese islamico del digiuno, è da molti decenni uno degli strumenti più efficaci dei leader palestinesi per incanalare verso l’esterno la rabbia e la frustrazione di una popolazione abbandonata al destino dell’occupazione, della deportazione, dell’esclusione, della privazione dei diritti.
Sia l’Autorità nazionale palestinese del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen) sia Hamas, sebbene con retoriche e atteggiamenti apparentemente diversi, traggono beneficio – almeno nel breve termine – dai drammatici sviluppi in corso. In un contesto di graduale crisi della loro legittimità, la questione di Gerusalemme toglie le castagne dal fuoco ai potenti di Ramallah e di Gaza.
Sul piano regionale, nessun attore è danneggiato da quanto sta succedendo. Piuttosto, ci sono leadership politiche che beneficiano degli eventi in corso e altre che, non senza imbarazzo, rimangono per ora a guardare in attesa di sviluppi.
L’Iran, principale sostenitore del Jihad islamico a Gaza e detentore di un legame tattico con Hamas, può soffiare con maggior efficacia sulla retorica del “Giorno di Gerusalemme” per rafforzare la propria posizione di apparente intransigenza e “resistenza” contro il nemico sionista. Gli Hezbollah in Libano e le milizie irachene filo-iraniane riescono con maggior facilità a spostare l’attenzione delle opinioni pubbliche di Beirut e Baghdad, esasperate da crisi economiche senza via d’uscita, illuminando gli eventi di al-Aqsa – terzo luogo santo dell’Islam – per oscurare le difficoltà attraversate nei contesti domestici.
Nei giorni scorsi, gli Hezbollah libanesi avevano lanciato vari messaggi tramite i propri canali politici e mediatici. Invitavano alla massima allerta lungo il confine meridionale, in corrispondenza di quella che era stata annunciata come la maggiore esercitazione militare israeliana degli ultimi anni. Nelle ultime ore, un presunto collaboratore di Hezbollah è stato preso di mira sulle Alture siriane del Golan in raid aerei attribuiti allo Stato ebraico.
Anche la Turchia, che come l’Iran aspira a un ruolo di leadership politica a tinte islamiche, trae vantaggio indiretto dal carnaio di Gaza e dalla polarizzazione identitaria attorno a Gerusalemme. La retorica populista consentirà al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan di mostrarsi genuinamente interessato alla difesa dei luoghi santi.
I luoghi santi, appunto, chiamano in causa l’Arabia Saudita. Che può forse apparire in imbarazzo ma che ha da tempo superato ogni remora nel prendere decisioni che sembrano impopolari nel contesto arabo-islamico. Riyad è in questi giorni impegnata a ricucire con la Siria del presidente Bashar al-Asad, alleato degli Hezbollah, e a confermare l’avvenuta riconciliazione col Qatar, sostenitore di Hamas. Soprattutto, la dirigenza saudita ha avviato ad aprile a Baghad colloqui con la controparte iraniana. Vista da Riyad, la crisi di Gerusalemme è da seguire con attenzione ma sono lontani i tempi in cui l’establishment saudita svolgeva mediazioni e si ergeva a paladino della causa palestinese.
I paesi che hanno normalizzato i rapporti con Israele, siglando gli accordi di Abramo nei mesi scorsi, non avranno enormi difficoltà a gestire l’apparente imbarazzo. Egitto e Giordania, in “pace” con lo Stato ebraico rispettivamente da 42 e 27 anni, hanno superato due intifada e numerose campagne militari israeliane su Gaza senza veder mai scosse le stabilità delle loro strutture di potere sotto i colpi del dissenso popolare solidale con la causa palestinese.
L’amministrazione Usa di Joe Biden, infine, è sicuramente l’attore esterno che viene messo alla prova in maniera più esplicita. E che finora ha tenuto un profilo estremamente cauto. Washington rimane l’alleato di ferro di Israele in Medio Oriente. Alcune decisioni prese dall’ex presidente Donald Trump non saranno sconfessate da Biden, che pare interessato non tanto alla questione israelo-palestinese, quanto al negoziato con l’Iran.
I grandi sconfitti sono la società palestinese e alcuni segmenti di quella israeliana, in forte dissenso con le pratiche repressive e discriminatorie dello Stato ebraico. Invece di prepararsi ad andare al voto, i palestinesi di Cisgiordania e Gaza si ritrovano a fare le barricate, a temere la morte e l’arresto, a urlare slogan identitari ed esclusivi che li escluderanno ancora di più dalle stagioni politiche future. Quando ad alzarsi è la “voce della battaglia”, le altre voci non riescono a farsi più sentire.
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