“Not in our names”, la lettera dei giovani ebrei italiani - Se non ci si converte (Raniero La Valle)


Diciamo #NotInOurNames

in “il manifesto” del 15 maggio 2021 


Siamo un gruppo di giovani ebree ed ebrei italiani. In questo momento drammatico e di escalation della violenza sentiamo il bisogno di prendere la parola e dire #NotInOurNames, unendoci ai nostri compagni e compagne attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso. 

Abbiamo già preso posizione come gruppo quest’estate condannando il piano di annessione dei territori della Cisgiordania da parte del governo israeliano e il nostro percorso prosegue nella sua formazione e autodefinizione. 

Diciamo #NotInOurNames: gli sfratti a Sheikh Jarrah e la conseguente repressione della polizia gli ultimi episodi repressivi sulla Spianata delle Moschee il governo israeliano che pretende di parlare a nome di tutti gli ebrei, in Israele e nella diaspora i giochi di potere (di Netanyahu, Hamas, Abu Mazen) che non tengono conto delle vite umane i linciaggi e gli atti violenti che si stanno verificando in molte città israeliane il bombardamento su Gaza il lancio di razzi indiscriminato da parte di Hamas la riduzione del dibattito a tifo da stadio l’utilizzo strumentale della Shoah sia per criticare che per sostenere Israele le posizioni unilaterali e acritiche degli organi comunitari ebraici italiani gli eventi di piazza organizzati dalle comunità ebraiche con il sostegno della classe politica italiana, compresi personaggi di estrema destra e razzisti la narrazione mediatica degli eventi in Medio Oriente che non tiene conto di una dinamica tra oppressi e oppressori qualunque iniziativa e discorso che veicoli rappresentazioni islamofobe e antisemite 

La situazione attuale rappresenta l’apice di un sistema di disuguaglianze e ingiustizie che va avanti da troppi anni: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi e l’embargo contro Gaza incarnano l’intollerabile violenza strutturale che il popolo palestinese subisce quotidianamente. Condanniamo le politiche razziste e di discriminazione nei confronti dei palestinesi. 

All’interno delle nostre società riteniamo necessaria ogni forma di solidarietà e mobilitazione, ma ci troviamo spesso in difficoltà. Pur coscienti che antisionismo non sia sinonimo di antisemitismo, osserviamo come un antisemitismo non elaborato, che si riversa più o meno consciamente in alcune delle giuste e legittime critiche alle politiche di Israele, rende alcuni spazi di solidarietà difficili da attraversare. Si tratta di una impasse dalla quale vogliamo uscire, per combattere efficacemente ogni tipo di oppressione. 


Firmatari: 

Aliza Fiorentino, Sara De Benedictis- Daniel Damascelli- Bruno Montesano- Teodoro Cohen-
Micol Meghnagi- Michael Blanga-Gubbay- Susanna Montesano- Michael Hazan, Beatrice Hirsch-
Giorgia Alazraki, Bianca Ambrosio, Alessandro Fishman, Tali Dello Strologo, Giulia Frova, Sara Missio, Alessandro Dayan, Ruben Attias, Keren Strulovitz, Enrico Campelli, Jonathan Misrachi, Yael Pepe, Claudia Pepe, Daniel Disegni, Sara Buda, Dana Portaleone, Ludovico Tesoro, Viola Gabbai ,Edoardo Gabbai, Benjamin Fishman, Lorenzo Foà, Alessandro Foà, Giulio Ambrosio, Gaia Fiorentino, Joy Arbib, Nathan De Paz, Habib Joel Hazan, Tami Fiano, Emanuel Salmoni 


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Se non ci si converte 

di Raniero La Valle 

in “www.chiesadituttichiesadeipoveri.it” 

Fare analisi ci troverebbe divisi, è invece necessario uscire dall'ibridismo politico-religioso che è l'unica riposta ad una crisi altrimenti senza possibilità di uscita


A partire dall’11 maggio un giorno dopo l’altro la Televisione ci ha mostrato torri e palazzi di 12 e 14 piani a Gaza abbattersi al suolo con i loro abitanti sotto i bombardamenti israeliani. Le immagini in diretta immediatamente richiamavano alla memoria con impressionante somiglianza le corrispondenti immagini dell’11 settembre 2001 quando furono abbattute le Torri gemelle a New York. Ma mentre allora il mondo si fermò e il compianto fu universale, questa volta nulla si è fermato e pianto non s’è visto. 

È la guerra, dicono, ma è impossibile dire quando questa è cominciata. È cominciata il giorno prima, con le migliaia di razzi sparati da Hamas su Israele, tanto più numerosi quanto più inefficaci, più politica che guerra, paurosamente asimmetrici rispetto alla potenza di fuoco israeliana? Oppure è cominciata il 7 maggio quando l’esercito di Israele ha fatto irruzione sulla spianata delle moschee, si è scontrato con i Palestinesi lì manifestanti o in preghiera? O è cominciata quando le famiglie palestinesi povere sono state sfrattate dal quartiere Sheik Jarrah per lasciare le case ai coloni occupanti sionisti? O è partita con la guerra dei 6 giorni del 1967 e la conquista ebraica di Gerusalemme Est? O con la Nakba, o “catastrofe” palestinese, e gli Arabi espulsi dalle loro terre nel 1948? O è cominciata con la Shoà, il genocidio, la lunga persecuzione degli Ebrei?
Non è il caso qui di tentare un’analisi che ci troverebbe divisi. Ma una cosa è certa: che questo lungo inumano conflitto non ha una soluzione politica. E speriamo fermamente che nessuno pretenda o si illuda di dargli una soluzione di forza, che nessuno pensi a una mazzata militare finale. Invece c’è una sola soluzione possibile, e c’è una condizione imprescindibile per una soluzione politica, ed è una conversione.          
Per conversione deve intendersi una conversione religiosa, che implica un mutamento della natura ebraica dello Stato di Israele. La natura ebraica dello Stato, nonostante la mascheratura laica, è stata impressa fin dal principio nella formazione statuale israeliana, incorporata nel suo evento fondatore, di fatto poi associata a tutte le sue scelte politiche e militari e dal luglio 2018 è anche formalmente sancita in una legge di portata costituzionale che fa di Israele lo “Stato-nazione” degli Ebrei, nel quale al solo popolo ebraico è riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, gli altri sono un popolo soggetto, da “scartare”, come direbbe la “Evangelii Gaudium”. In forza di ciò in Israele ci sono due cittadinanze e una sola legittimità, la cui fonte è un diritto non di origine umana ma un diritto divino.
Si tratta di una figura storicamente già nota. Tale è stato il regime costantiniano, o meglio teodosiano, in cui si è incorporato tra il I e il II millennio il cristianesimo, tale lo Stato della Chiesa che ancora nell’800 praticava a Roma le esecuzioni capitali alla mazzola e squarto a piazza del Popolo, tale “la cristianità” vigente in Occidente fino al Concilio Vaticano II, tale il regime di cristianità dal quale ora papa Francesco proclama risolutamente la Chiesa essere uscita; ma questo è anche il modello che ancora sussiste nelle velleità e nei sogni dell’estremismo islamico e dei suoi riesumati e falliti califfati.
Uscire da questo ibridismo politico-religioso non è solo la condizione della democrazia e la prima stazione della pace, ma sarebbe anche una straordinaria epifania di Dio, una correzione delle sue fuorviate immagini, una guarigione delle perverse rappresentazioni fornitene da ogni tradizione. Per la religione e il popolo d’Israele, come pur imperfettamente lo è stato per i cristiani, una tale conversione sarebbe un dono inestimabile anzitutto per se stessi, ma anche per l’umanità tutta, oggi alle prese con il compito storico di dare una risposta alla crisi ambientale, di salvare il pianeta, far continuare la storia. Il miglior cristianesimo e il miglior Islam si sono già abbracciati su questa frontiera nel documento di Abu Dhabi del febbraio 2019 in cui insieme essi hanno preso le distanze dall’uso politico della religione, divenuto fonte di “violenza, estremismo e fanatismo cieco”, mentre un documento cattolico dogmatico sul monotesimo e la violenza del 2013 aveva già sconfessato ogni “tentazione di scambiare la potenza divina con un potere mondano” e aveva postulato, come inizio di una nuova storia, l’avvento di “una religione definitivamente congedata da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della signoria di Dio”. 

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