La Veglia di Pentecoste – che per fortuna non è stata ancora rovinata, perchè ad essa non è collegato alcun tratto consumistico come purtroppo accade alla notte di Natale o alla festa di Pasqua, ma che non ha tuttavia nella coscienza del popolo cristiano l’importanza che dovrebbe avere – è la Veglia che porta a compimento l’unica novena di carattere biblico. Per nove giorni la comunità delle origini, secondo il racconto di Luca dopo l’Ascensione di Gesù (At 1), è raccolta nel Cenacolo a Gerusalemme ad attendere in preghiera il dono dello Spirito. Di solito noi citiamo come icona della comunità primitiva il testo di cui si parla in Atti 2: “erano un cuor solo e un’anima sola”. La prima icona della comunità delle origini, invece, è quella con i Dodici, appena ricostituiti completando il loro numero con l’elezione di Mattia, con i discepoli, le donne, tutti riuniti attorno a Maria e raccolti in una lunga, interminabile, orante invocazione per la venuta dello Spirito.
Ognuno di noi, con il suo dono e insieme, abbiamo una unica missione: annunciare il Signore Gesù al Mondo.
Ho pensato ripercorrere l’itinerario della sequenza di Pentecoste, chiamata “aurea” per la ricchezza del suo pensiero, la bellezza del suo linguaggio e la grande devozione che sprigiona. Composta fra il 1150 e il 1250, è stata attribuita a Stefano di Langhton arcivescovo di Canterbury, contemporaneo di Lotario che, cardinale a 27 anni, divenne papa a 37 nel 1198 con il nome di Innocenzo III. La sequenza è suddivisibile in cinque parti, formate di due strofe di tre versetti ciascuna.
La prima parte inizia con l’invocazione allo Spirito, quasi con un insistente invito, contrassegnato della quadruplice ripetizione dal “veni”:
Veni, Sancte Spíritus,
et emítte cǽlitus
lucis tuæ rádium.
Veni, pater páuperum,
veni, dator múnerum,
veni, lumen córdium.
Vieni Santo Spirito,
mandaci dal cielo
un raggio della tua luce.
Vieni padre dei poveri,
vieni datore dei doni,
vieni luce dei cuori.
Con questo incalzante “vieni”, noi esprimiamo la lunga attesa, la nostalgia, l’invocazione perché ci sentiamo anche oggi donne e uomini senza lo Spirito. La nostra è una religione che è rimasta senza lo Spirito. C’è in giro molto spiritualismo, ma si tratta di uno spirito debole, fiacco, languido, che ha come obiettivo quello di realizzare l’armonia fisica, psichica e, persino, spirituale del “proprio io”. Vi sono delle tecniche orientali e occidentali, che possono aiutarci a realizzarla con una promessa di successo. Da quelle più antiche di ascendenza orientale (yoga), all’esicasmo esigente del vicino Oriente, fino alla New Age d’importazione americana. Ma questo non è lo spirito, quello Santo!
Vieni Santo Spirito: lo Spirito, quello Santo, soffia dove e come vuole e nessuno può appropriarselo. Questa frase (che viene di solito evocata con un’ardita pretesa per dire che lo Spirito “soffia sempre dalla mia parte”), in realtà noi la interpretiamo con gli occhi agostiniani, nel senso che pensiamo che lo Spirito soffi arbitrariamente. Invece, lo Spirito soffia “dove e come vuole”, perché nessuno può possederlo, può metterselo in tasca, può farlo diventare possesso indiscutibile, conquista tranquilla. Lo Spirito è sempre da invocare, è sempre un dono dall’alto, è sempre il dono del Padre.
Dio è il Padre dei poveri. Il Figlio è il datore dei doni. Lo Spirito è la luce dei cuori. Lo Spirito si dona a noi nella circolazione trinitaria. E noi dobbiamo invocarlo così! Essere “donne e uomini senza lo Spirito” è “essere uomini e donne” di una religione del “si deve” o del “mi piace”, che sono le due forme della religione oggi più diffusa: quelli che “credono e praticano perché si deve” o quelli che “credono e praticano perché si sentono”. È la religione del dovere o la religione dell’emozione, la religione di quelli che dicono “io ho sempre fatto così” oppure di quelli che dicono “io vengo quando mi sento, quando mi piace, quando mi emoziona”. Questo sono le due forme della religione “senza lo Spirito Santo”.
Allora bisogna abitare il primo momento dell’invocazione, come ci ha ricordato la Lettera ai Romani, proclamata nella Veglia: “noi non sapremmo neppure che come invocare il dono dello Spirito”. Chi se ne appropria in fretta, va temuto... Lo Spirito cammina sempre davanti a noi, anzi vedremo alla fine che è un dono escatologico.
Il secondo passo è il più bello e ci fa sentire il brivido del dono dello Spirito e dello Spirito come dono.
Consolátor óptime,
dulcis hospes ánimæ,
dulce refrigérium.
In labóre réquies,
in æstu tempéries,
in fletu solácium.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
soave refrigerio.
Nella fatica riposo,
nella calura riparo,
nel pianto conforto.
Se il nostro grembo diventerà un grembo accogliente – e non un grembo sterile – genererà dentro di noi, attraverso lo Spirito, lo stesso Gesù, come avvenne nel grembo di Maria, dove germinò la Parola fatta carne. Lo Spirito appare sotto il titolo del Paraclito, che in latino viene tradotto con Consolator, alla greca Parákletos, che vuol dire non solo consolatore, ma anche intercessore, avvocato, suggeritore, accompagnatore. È un termine intraducibile: è come un diamante che ha molte facce, una perla luminosissima. Ce lo ha ricordato il Vangelo della veglia: lo Spirito zampilla dentro la vita degli uomini e della Chiesa. Il testo poetico medioevale registra forse una concentrazione individuale (ospite dolce dell’anima) ma, in realtà, l’anima può anche dilatarsi ad indicare la realtà della Chiesa.
Ospite dolce dell’anima: oggi abbiamo una religione che non è dolce, che non è ospitale. La nostra è una religione del “bollino”: andiamo a messa, dicendoci che c’è da eseguire anche questo impegno... Siamo cristiani senza smalto, perchè non sentiamo che lo Spirito ci avvolge da tutte le parti, che è soave refrigerio e che penetra dentro le profondità dell’anima, come dice Paolo.
Nella fatica, riposo, nella calura, riparo, nel pianto, conforto: che belle queste tre parole in crescendo: fatica, calura e pianto a cui corrisponde la scala dei termini che regalano la pace “spirituale”: riposo, riparo e conforto. Basterebbe solo la seconda parola a ricordarci la calura di Giona che si ripara sotto il ricino, ma il ricino muore, ed egli si lamenta contro Dio che gli ha fatto morire il ricino, togliendogli la frescura dell’ombra. Giona non s’accorge che è lo stesso volto di quel Dio misericordioso che vuole che tutta la città di Ninive sia riconciliata, perdonata, convertita.
Così è anche del pianto e della fatica. Lo Spirito è il Consolatore, il Paraclito è il Suggeritore, è la voce che parla dentro noi... Lo dico ai ragazzi quando amministro la Cresima: lo Spirito è il “maestro interiore”. Nella nostra vita abbiamo avuto tanti maestri, che talvolta sono più maestri da ammirare che da imitare, come dice Kierkegaard.
Sant’Agostino capì che poteva chiamare lo Spirito consolatore come il “maestro interiore”, il dolce ospite dell’anima. Egli ti dice di fronte al difficile discrimine delle cose quanto è da pensare, da intuire, da scegliere e da fare. Lo Spirito suggerisce che è meglio scegliere una cosa che genera vita invece di procurare morte; che genera consolazione, invece di procurare pianto; che genera riposo, invece di procurare fatica. Vorrei che sentissimo tutta la potenza di questo Spirito che, nella metafora del vangelo di Giovanni, è descritto come l’acqua zampillante, la sorgente fresca, il soave refrigerio... Come quando vi sono estati dove si cerca una goccia d’acqua nella canicola opprimente, così si dovrebbe desiderare questa notte la venuta dello Spirito.
Segue la terza parte della sequenza sulla realtà dell’uomo spirituale, sulla creatura nuova:
O lux beatíssima,
reple cordis íntima
tuórum fidélium.
Sine tuo númine,
nihil est in hómine,
nihil est innóxium.
O luce beatissima
invadi nel profondo,
il cuore dei tuoi fedeli.
Senza il tuo soccorso nulla è nell’uomo,
nulla è senza colpa.
La terza sezione è concentrata sull’uomo nuovo e sulla donna nuova che nascono dallo Spirito. È quell’uomo e quella donna che sono invasi dalla luce beatissima dello Spirito. Lo Spirito crea il cuore dei fedeli; rinnova i fedeli con un cuore nuovo, capace di coralità e cordialità: coralità, perché un cuore non può vivere da solo; e cordialità, perché il cuore deve manifestare all’altro ciò che ha ricevuto.
Questa luce, che penetra nell’anima, è un’invasione del profondo dell’io, è il dono dello Spirito. Forse oggi ci sono tanti invasati, ma questa è un’altra cosa... Quella dello Spirito è un’invasione che non schiaccia la libertà, ma genera la libertà nuova. Sapete che nel secolo XVI e XVII – basti citare Pascal e il giansenismo – molti hanno dibattuto su come si facesse a coniugare la grazia e la libertà. Essi dicevano: più c’è la grazia meno c’è la libertà, più c’è la libertà meno c’è la grazia. Sarebbe a dire che più c’è l’amore dell’uno meno c’è l’amore nell’altro! Se grazia e libertà li pensate come due solidi, essi faticano a incastrarsi. Se grazia e libertà sono pensate come due libertà che si amano (quella di Dio e quella dell’uomo, ma anche quella tra noi umani), esse crescono insieme. Tanto è vero che, quando l’altro ti ama senza lasciarti lo spazio per crescere, gli dici: “stai distante che mi soffochi”; oppure quando ti senti abbandonato, ti lamenti: “sei troppo lontano e mi congelo”. Noi abbiamo iscritta nel cuore la giusta misura, per cui la libertà dell’amore dell’altro è generatrice della nostra ed essa trova la giusta misura proprio nello Spirito. Questo è l’uomo nuovo dello Spirito.
Il quarto passo è il più bello, quello che amo di più e che vorrei dedicare a tutti noi. Dobbiamo essere una Chiesa che non deve aver paura di guardare in faccia a quello che vi leggo:
Lava quod est sórdidum,
riga quod est áridum,
sana quod est sáucium.
Flecte quod est rígidum,
fove quod est frígidum,
rege quod est dévium.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
raddrizza ciò che è sviato.
È un testo di una bellezza sconfinata: quanta rigidità nella Chiesa! Sogniamo dei credenti e una Chiesa che sia capace di essere purificata, irrigata, guarita, duttile, elastica, piena di calore. Che sappia raddrizzare anche le sue storture: non possiamo farlo da soli, ma dobbiamo farlo solo riconoscendo sul volto del fratello ciò che manca a me. Molto di più lasciandoci stringere la mano dal fratello e dalla sorella, perchè possiamo costruire una Chiesa senza macchia né ruga. Voi sapete che questo fu il grande sogno di Giovanni XXIII. Nella vita di ogni uomo e donna qualche ruga prima o poi viene. Sempre dobbiamo lasciarci rinnovare il volto dall’incontro con il Signore. Questo è il momento più ecclesiale della sequenza, anche se sembra che sia riferito a ciascuno di noi. Sono bastati pochi gesti conditi di qualche parola di efficace linguaggio popolare, per ridarci la fiducia e la speranza da parte di papa Francesco! Perchè non dovremmo ripetere questi gesti? L’uno per l’altro? Ricuperando il senso buono della prossimità, la fiducia dell’ascolto, la capacità dell’intesa, la forza del perdono, l’azzardo nel camminare insieme e costruire qualche progetto con l’altro, lo slancio del sogno comune. Questa è la Chiesa che sogniamo, con la fantsmagoria dei suoi movimenti, che non siano conventicole, ma la sinfonia dei doni dello Spirito!
Poi vi è l’ultimo momento che potremmo intitolare “il futuro della speranza”:
Da tuis fidélibus,
in te confidéntibus, sacrum septenárium.
Da virtútis méritum,
da salútis éxitum,
da perénne gáudium.
Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni (il latino dice: i tuoi sette doni).
Dona virtù e premio dona morte santa, dona gioia eterna.
È interessante che alla fine ricorra quattro volte il verbo “da”. Il quadruplice “da” della fine corrisponde ai quattro volte “veni” dell’inizio. Più noi invocheremo il “veni”, più sentiremo che questo “veni” si trasforma dentro di noi in operosa proiezione verso la missione del mondo. Lo Spirito ci dà sette doni. Tre doni sono per saper comprendere la vita (sapienza, intelletto e scienza), un dono è per scegliere (consiglio) e tre doni sono per realizzare questa scelta nella vita del mondo (fortezza, pietà e timor di Dio). Ecco i sette doni dello Spirito. Dandoci questi sette doni lo Spirito ci fa suoi fedeli: dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano. Non siamo fedeli prima dello Spirito. Anzi voi sapete che la dizione latina di fedeli è christifideles (non esiste una possibile traduzione italiana, ma non dimenticate che l’enciclica sui laici del beato Giovanni Paolo II era intitolata Christifideles laici). I laici sono i Christifideles, i fedeli che prendono i contorni di Cristo! Questo è il Dono nei sette doni e sette doni nell’unico Dono. È lo Spirito Santo, che ci elargisce il dono escatologico.
Sono le ultime tre realtà che vi auguro per questa notte santa. Quando andremo a casa non ci faremo i regali come a Natale, non taglieremo una fetta di colomba come a Pasqua, ma vi prego di abbracciarvi stringendovi con affetto. Se fossimo gli antichi cristiani ci daremmmo “il bacio santo della comunione”, in cui è presente questo triplice dono.
Dona virtù e premio: dà al nostro fare la gioia di sentire che è un agire meritorio, un agire che ci fa crescere. Dona morte santa: in latino è molto di più – salútis éxitum –: dà compimento al nostro cammino di salvezza. Dona gioia eterna, perché, cari amici, a voi che siete venuti questa sera, auguriamo quello che per fortuna non si trova alla città mercato, tanto è vero che è sparito dal nostro linguaggio comune. Noi parliamo normalmente di qualità della vita, di felicità, ma qui ci viene data nientemeno che la gioia, la gioia dello Spirito: da perénne gáudium!
+ Franco Giulio
Nessun commento:
Posta un commento