In Chiesa due icone in stile copto ma in Etiopia c'è una guerra che il mondo non vuole vedere


Nella chiesa della Risurrezione ci sono due icone in stile copto-etiope. I cristiani copti sono in gran maggioranza concentrati negli altopiani del nord dell'Etiopia abitati dall'etnia Amhara e li riconosci subito dal mantello bianco dal quale sono sempre avvolti.
(foto di Gianni Bacci)
A questo gruppo è legata la lingua sacra e liturgica Ge'ez e hanno dominato a lungo fino al 1990.  Il Tigray, una delle regioni del nord di quel paese e, questo  gruppo etnico, pur essendo una minoranza, è stata dal 1991 al potere in quanto sono stati loro a sconfiggere e cacciare il dittatore Mengistu. Ma il loro governo si è dimostrato oppressivo: dal 2016 al 2018 sono state più di 21.000 gli oromo (l'etnia più consistente in tutta l'Etiopia) arrestati come cospiratori contro il potere dei tigrini. Nell'aprile del 2018 sono però stati sconfitti alle elezioni politiche generali ed è salito al potere Abiy Ahmed Ali del Partito Democratico Oromo, insignito nel 2019 del Premio Nobel per la Pace avendo posto fine all'atavico conflitto e alle tensioni con l'Eritrea. La speranza di una pacificazione è durata poco e le tensioni politiche tra le due etnie anche per questioni di confine tra le diverse regioni è riesplosa violentemente.

Il Patriarca Ortodosso denuncia stupri e assedio come arma di guerra nel Tigray, un vero e proprio "genocidio" contro quella popolazione, ma il conflitto resta "invisibile agli occhi della comunità internazionale.

Di seguito il dossier pubblicato il 14 maggio dall'Ispi, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale oggi riconosciuto tra i più prestigiosi Think tank europei. Il servizio è stato curato da Alessia De Luca, ISPI Advisor for Online Publications.


Migliaia di donne, ragazze e bambine sarebbero vittime di stupri di guerra nella regione del Tigray, in Etiopia settentrionale al confine con l’Eritrea, teatro da mesi di un conflitto che vede l’esercito di Addis Abeba, a cui si sono unite le truppe della vicina Eritrea, in lotta contro il Fronte di liberazione popolare del Tigray (Tplf). Il conflitto ha provocato lo sfollamento interno di migliaia di persone e la fuga di oltre 63mila tigrini nelle regioni confinanti del Sudan orientale, mentre l’Onu ha confermato che i militari bloccano l’accesso alle vie di comunicazione impedendo la distribuzione di cibo e aiuti nella regione dove ormai l’80% della popolazione (6 milioni di persone) rischia di morire di fame. Come se non bastasse, a denunciare il ricorso agli stupri come arma di guerra sono diverse associazioni sul territorio, mentre nella capitale proseguono gli arresti ai danni di giornalisti. Le testimonianze riferiscono di violenze sessuali “diffuse e sistematiche” perpetrate da uomini in uniforme. Nel suo briefing al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 15 aprile, Mark Lowcock, coordinatore dei soccorsi di emergenza delle Nazioni Unite, ha dichiarato che “non c'è dubbio che la violenza sessuale sia usata in questo conflitto come arma di guerra, come mezzo per umiliare, terrorizzare e traumatizzare un’intera popolazione oggi e una generazione successiva domani”.

Un ‘genocidio’ contro il popolo tigrino?

Da settimane le accuse di massacri ai danni dei civili nella regione del Tigray si moltiplicano. Appena pochi giorni fa, il patriarca della Chiesa ortodossa etiope ha accusato il governo un genocidio contro il popolo dei Tigrini. “Dio giudicherà tutto” ha detto il patriarca Abune Mathias, un tigrino, aggiungendo: “Non so perché vogliono spazzare via la gente del Tigray dalla faccia della terra”. Il primo commento pubblico dall'inizio della guerra da parte del patriarca è stato affidato ad un messaggio video ripreso con il cellulare dal direttore di una ong americana nel paese. Secondo Cnn, il religioso – 80 anni, patriarca ortodosso del paese con la più antica tradizione cristiana dell’intero continente africano – avrebbe registrato di nascosto il messaggio da Addis Abeba dove sarebbe agli arresti domiciliari nella sua residenza. È in questo contesto, di sospette violazioni del diritto umanitario e crimini di guerra e contro l’umanità, che si stanno consumando stupri etnici di massa: “Siamo molto preoccupati per le informazioni che arrivano dalla regione del Tigray” ha denunciato Evelyn Regner, presidente della Commissione per i diritti delle donne al Parlamento europeo: “Le violenze sessuali e gli stupri di guerra devono essere condannati dai leader di tutto il mondo, come ha già fatto il presidente [USA Joe] Biden. Queste atrocità devono finire e i soldati così come i loro comandanti coinvolti devono essere condannati”.

 

Abiy Ahmed, colomba o falco?

Eppure, nel 2018 l’ascesa di Abiy Ahmed e il suo impegno dichiarato per risolvere problemi di lunga data nel paese avevano accesso le speranze di un cambiamento. Se fino ad allora l’Etiopia figurava tra i paesi più oppressivi del continente africano, il governo di Abiy mostrò subito un cambio di rotta avviando riforme profonde e siglando la pace con la vicina Eritrea, dopo un conflitto ventennale. Ma il premier, che proprio per quell’accordo fu insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, non è riuscito a realizzare abbastanza velocemente la sua strategia per “una nuova Etiopia”, e questo ha riacceso tensioni mai sopite tra le diverse comunità etniche che compongono il paese, sulle questioni identitarie, i confini regionali e la rappresentanza politica. Da allora, il crescente giro di vite sul dissenso e gli oppositori ha esacerbato la situazione. Il conflitto nel Tigray si inserisce in questo contesto: il casus belli, fatto risalire ad un attacco delle forze tigrine ad una base federale, sarebbero in realtà le elezioni convocate a settembre 2020 dalle autorità tigrine in segno di sfida contro il lockdown nazionale imposto da Addis Abeba. Ma le ragioni dello scontro tra il primo ministro e l’élite tigrina hanno radici ancor più profonde e affondano in una lotta di potere e legittimità tra il governo federale e il Tplf. Il 27 novembre il capoluogo Macallè cadeva e la giunta del Tplf veniva sostituita con una amministrazione ad interim. Abiy promise che la guerra si sarebbe conclusa in poche settimane e non avrebbe sprofondato il paese nel caos.


Aspettando l’Onu?

Lo scorso 26 marzo il premier Abiy ha dichiarato che le truppe eritree si erano ritirate dal Tigray, ma secondo diversi mezzi di informazione la loro presenza sarebbe ancora ben visibile sul territorio. Secondo l’Onu almeno 4,5 milioni di tigrini hanno bisogno urgente di aiuti umanitari e, come denunciato dalla Croce Rossa, mancano farmaci e cure mediche perché l’80% degli ospedali è stato distrutto o saccheggiato. Sei mesi dopo l’inizio di una guerra che Addis Abeba aveva presentato all’Unione Africa e alla comunità internazionale come poco più di “un’operazione di polizia”, il conflitto non accenna a concludersi. Come pure il blackout sui mezzi di informazione, mentre l’accesso agli operatori umanitari è arbitrario e consentito con il contagocce. Inquietanti interrogativi si moltiplicano: Addis Abeba non vuole testimoni delle massicce violazioni dei diritti umani da parte delle truppe federali? L’Eritrea sta approfittando della situazione per assestare un colpo definitivo ai tigrini, avamposto delle truppe etiopi nei lunghi anni di guerra tra i due paesi? A porseli, tardivamente, è stato anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che il 22 aprile ha rilasciato la sua prima dichiarazione sulla crisi nel Tigray. Ma pur prendendo atto con preoccupazione della “drammatica situazione umanitaria” e delle “denunce di violenza sessuale ai danni di donne” e bambine il Consiglio Onu non ha mostrato finora alcuna urgenza né determinazione ad agire. Un’inchiesta condotta dal governo di Addis Abeba nega i massacri di civili e rafforza l’urgenza per un’indagine indipendente (e che pertanto non coinvolga le autorità locali) che, però, non è stata ancora predisposta. Le donne del Tigray hanno sfidato la paura e lo stigma per denunciare le violenze subite con un coraggio che merita rispetto. Si può dire lo stesso della comunità internazionale?

 

Il commento 

Di Camillo Casola, Ispi Associate Research Fellow Programma Africa 

“La scommessa di Abiy Ahmed, che aveva dato avvio alle operazioni militari in Tigray immaginando di regolare la questione in tempi rapidi, si è rivelata un azzardo: la reputazione internazionale del giovane primo ministro rischia di risultarne del tutto compromessa, così come il progetto di leadership continentale di Addis Abeba.  

È del tutto evidente, ormai, come una soluzione al conflitto non possa passare che dal ritiro effettivo e immediato delle truppe eritree e delle milizie etniche amhara dal territorio tigrino, oltre che dall’apertura di canali di negoziato tra il governo federale e le autorità del TPLF. Intanto, le elezioni generali del prossimo giugno sono ormai alle porte: quella che doveva essere una svolta democratica per il paese, potrebbe rappresentare, in un contesto di grave fragilità politica, l’ennesima occasione perduta”. 



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