Pentecoste: è sia il dono della Torah sia quello dello Spirito

   

Israele non crea dal nulla le sue feste, ma lei assume dal contesto limitrofo semitico, ri-creandole e re-interpretandole alla luce dell’evento fondante della rivelazione sinaitica.


Così la Pasqua trova la sua origine in un contesto nomadico pastorale. In primavera la nascita degli agnellini che, appena nati, sembrano giocare saltellando qua e là. Questo evento veniva celebrato con l’offerta di un agnellino “saltellante” e per questo chiamato “pesah”.

In un secondo momento, diventati sedentari e quindi agricoltori, ai fini della sopravvivenza diventa predominante non più le nascite degli agnellini, ma il rifiorire della natura e il primo raccolto. L’offerta di un pane fatto con il nuovo raccolto (mazzot=pani azzimi) sostituisce quello dell’agnello.

Questi due elementi si fondano e, riletti, diventano il “memoriale” (=zikkaron) dell’uscita dall’Egitto. Cinquanta giorni dopo sul Sinài c’è l’evento del dono della Torah.

È quest’ultimo evento che Israele celebra a Pentecoste ma, anche questa festa aveva un precedente: la celebrazione del nuovo inizio del ciclo naturale fatto coincidere con la mietitura dell’orzo e avente come scopo quello di propiziarsi il raccolto il nuovo raccolto e di offrirne le primizie a Dio.

Per la comunità cristiana - che nasce e si innesta su quella ebraica – continua nella tradizione non cancellando, non giustapponendosi, ma assumendole e, realizzandole le rifonda.

 

Così la festa cristiana della Pentecoste non cancella ma reinterpreta quella ebraica senza la quale non può essere pienamente compresa e adeguatamente spiegata.

Il post su questo Blog intitolato “L’Alleanza del Sinài” di sabato 6 marzo (al quale rimando), è stato dedicato al dono della Thorà che significa “insegnamento” e al fatto che le Parole che Dio dona ad Israele, non sono dei “comandi”, ma delle indicazioni di vita, degli obiettivi da raggiungere. Sono una proposta che Dio fa a ciascun uomo che coinvolge ed esige una risposta responsabile. Non dettami arbitrari di un potere dispotico, ma la volontà amante di un Padre che non tollera la sofferenza dell’altro da sé, che si prende cura del bisogno dell’altro e chiede di unirsi a lui per e nel fare altrettanto. Gesù le riassume, sintetizza, snellisce fino a distillarle in un’unica indicazione: “ama”. Ama dell’amore con cui ti sei scoperto amato. Fallo rimanendo agganciato alla linfa della vite che è il Padre. Sono “co-mandi” nel senso che siamo inviati a svolgere un compito (vedi il Post “Inviati con un compito: portare frutto” di sabato 8 maggio).


Il dono dello Spirito è la possibilità che ci è data di vivere realmente secondo la logica dell’Alleanza, in piena responsabilità, in radicale obbedienza al Signore per e nell’amore verso tutti gli uomini, vivendo come lui ha vissuto fino al dono della vita e della risurrezione. È il partecipare della sua stessa vita, è l'aver ricevuto quel cuore nuovo capace di mettere in pratica la volontà d'amore del Padre della profezia di Ezechia (36,26 ss) assistiti, consolati e guidati da Lui in ogni istante della nostra vita perché è lo Spirito di Vita che si è incarnato, si incarna e si incarnerà nell'umanità vivendo, soffrendo, gioendo scegliendo per essere le sue mani operose.

 (BiGio)



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Israele ha poi “tradotto” il Decalogo, le 10 Parole, in 613 mitzvòt che desiderano essere un aiuto a vivere l’Alleanza in ogni istante della giornata: 248 sono indicazioni di cose da fare, 365 sono invece da non fare. 

Questi numeri sono carichi di valenze simboliche: 248 è considerato il numero delle ossa del corpo umano e 365 i legamenti che le collegano le una alle altre. 

Vale a dire che è tutto l’essere, tutta la persona è coinvolta nell’Alleanza, ogni sua più piccola e nascosta parte; 365 sono anche i giorni dell’anno a significare che va vissuta pienamente sempre lungo l’intera vita.

Se traduciamo mitzvòt con “precetti” corriamo il pericolo di considerarli una imposizione, tradendone il loro obiettivo che è, come detto, tutt’altro e Gesù ha detto che non è venuto per modificare nulla, nemmeno il più piccolo paragrafo, la più piccola lettera della Toràh (Mt ,17-18).

Possiamo più fedelmente rendere mitzvòt con “comandi” nelle, fuse assieme, due dimensioni che questo termine significa:

    - essere invitati/inviati (mandati) a realizzare qualcosa: l’amore di Dio, cioè essere suo

     “sacramento” (cioè segno efficace del suo amore tra gli uomini) 

    - essere mandati con un compito da svolgere assieme al Signore che non ci abbandona mai ed

      è sempre al nostro fianco 


Le mitzvòt sono un aiuto a realizzare questo compito che, dopo l'incarnazione-morte-risurrezione di Gesù, dalla Pentecoste sono scritte con il suo dito nel nostro cuore che lo fa cambiare da pietra in carne.

 

                                                                                                                                                                                                                                                          (BiGio)



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