Questo articolo è stato pubblicato dalla rivista Limes il 19 maggio 2021 a firma di Lorenzo Trombetta, collaboratore analista dell'ISPI, studioso di Siria contemporanea e autore di Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre, Mondadori Università. Da Beirut è corrispondente per l’Ansa e collabora con numerose testate nazionali e straniere.
L’organizzazione politico-militare Hamas, che da circa 15 anni domina la Striscia di Gaza, è oramai un’agenzia di servizi.
I clienti del movimento islamico palestinese sono numerosi: Israele, prima di tutto. Poi l’Iran. Il Qatar e la Turchia. L’Egitto. Ma il negozio è aperto al pubblico. E se domani l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti o addirittura gli Stati Uniti trovassero la formula giusta per rivolgersi, formalmente o sotto banco, a quest’agenzia di servizi, il portafoglio di clienti potrebbe allargarsi.
Qualcuno potrà inarcare il sopracciglio e pensare che sia poco opportuna questa descrizione mentre è in corso l’ennesima carneficina in Medio Oriente. Sono ore in cui si ripropone una polarizzazione retorica ormai abituale: per alcuni il Hamas è una formazione terroristica, per altri è un movimento di resistenza.
Certamente è una lettura sintetica, che non dà conto delle diverse fasi e delle differenti anime politiche e culturali che hanno animato Hamas dalla sua fondazione (nel 1987, l’anno in cui iniziò la prima Intifada) a oggi. Eppure è bene suggerire un cambio di prospettiva, soprattutto per comprendere l’estrema viziosità del circolo in cui si avviluppano da anni l’azione e la retorica delle parti coinvolte. Si può guardare al fenomeno Hamas tenendo conto delle risorse in campo, degli interessi in gioco e dei rapporti di potere tra gli attori che negoziano e che periodicamente si fanno la guerra.
Prima di tutto, Hamas non è un monolite, bensì una struttura articolata al suo interno composta da individui organizzati in fazioni, caratterizzati da percorsi umani e professionali diversi, sparsi dentro e fuori la Palestina, più o meno affiliati con attori stranieri.
In secondo luogo, bisogna considerare il capitale su cui si basano la forza e la longevità di Hamas: il territorio e la popolazione della Striscia di Gaza, strategico rettangolo di terra tra il deserto del Sinai egiziano, il mar Mediterraneo e Israele. Hamas senza Gaza sarebbe un lemma in un dizionario enciclopedico. E senza la gente della Striscia perderebbe un pilastro della sua legittimità: “il popolo”.
Terzo punto: per mantenersi egemone su quel territorio e continuare a proporsi come un’agenzia di servizi, Hamas ha bisogno di legittimità interna, di risorse finanziarie, di mezzi militari e istituzionali e di sostegno esterno: tutti elementi che fanno parte del rapporto di scambio che intercorre tra il movimento palestinese e i suoi clienti.
Lo schema clientelare ovviamente non si applica soltanto a Hamas. Anche gli attori statuali che vengono presentati nelle righe che seguono sono in diverse circostanze clienti e in altri padroni.
Israele ha da anni appaltato di fatto a Hamas la gestione della Striscia di Gaza. E ha appositamente lasciato crescere la forza politica e militare del movimento islamico per indebolire l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Mahmud Abbas (Abu Mazen) in Cisgiordania. Tanto, hanno pensato più volte i leader israeliani, non si può negoziare con una “formazione terroristica”. E visto che l’unico attore potenzialmente legittimo per il “negoziato di pace” – l’Anp – è stata talmente indebolita dall’esterno e dall’interno da non essere più in grado di fare politica, ogni tipo di trattativa seria tra israeliani e palestinesi è destinata a morire prima di nascere.
Israele non è intenzionato a negoziare, se questo significa sedersi al tavolo e smettere di espandere le colonie in Cisgiordania erodendo spazio vitale ai palestinesi. Nell’ottica di governi come quelli guidati negli ultimi anni da Benjamin Netanyahu, è meglio avere come controparte un soggetto come Hamas, pronto a lanciare una pioggia di razzi sui coloni e sostenuto dall’arcinemico iraniano. Ecco perché l’attuale spirale di violenza assomiglia drammaticamente a quella già vissuta numerose altre volte nel 2012, 2014 e 2018.
Israele non intende annientare Hamas perché ha bisogno di una controparte come Hamas. Proviamo a immaginare lo scenario in cui riesca a cancellare dalla Striscia di Gaza il movimento islamico. Si aprirebbe un dilemma irrisolvibile: che strategia elaborare rispetto alla questione palestinese? Invece, dovendosi relazionare con Hamas, lo Stato ebraico può tranquillamente far valere il proprio strapotere militare. Così la tattica (le guerre periodiche) può tenere nascosta la strategia (distruggere qualsiasi idea di statualità palestinese).
La visione strategica non sembra mancare invece all’Iran, l’altro cliente principale di Hamas. La Repubblica Islamica finanzia buona parte del suo arsenale di razzi, giunti nel corso degli anni tramite la rotta yemenita, sudanese e poi egiziana. L’Iran trova coerente con la sua politica e la sua retorica sostenere un movimento armato che sulla carta si dice anti-israeliano: può così tentare di estendere la sua influenza in un altro angolo del Mediterraneo, qualche centinaia di chilometri più a sud di dove operano gli Hezbollah libanesi, attore più integrato di Hamas nel sistema egemonico di Teheran.
L’Iran appoggia da anni anche la Jihad islamica, formazione politicamente meno rilevante di Hamas a Gaza ma che negli anni è cresciuta proprio grazie alla politica lungimirante dell’Iran, interessato ad avere più di una carta sul terreno, da usare in caso l’una contro l’altra. La Jihad islamica è un cliente dell’Iran in maniera assai più spiccata di Hamas. Che dal 2012 ha formalmente rotto sia con il governo di Bashar al-Asad in Siria sia con Teheran, per via delle tensioni ideologiche esplose con i cambiamenti politici dell’Egitto post-Mubarak e durante la repressione governativa siriana contro formazioni del dissenso vicine alla Fratellanza musulmana.
Proprio la Fratellanza musulmana è il collante ideologico tra Hamas e altri due clienti importanti: il Qatar e la Turchia. Il Qatar sostiene il lato istituzionale e amministrativo di Hamas: paga, in contanti e periodicamente, gli stipendi dell’apparato istituzionale di Gaza, di parte dei servizi relativi alla sanità e all’istruzione e di altri settori vitali per far sopravvivere – non vivere – la gente della Striscia. In cambio Doha è rimasta attiva in uno scenario chiave per il Medio Oriente e il Mediterraneo, particolarmente importante negli anni di blocco commerciale, diplomatico e politico imposto dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati (blocco terminato a inizio 2021). In un contesto di espansione economica e politica degli Emirati Arabi Uniti in tutto il Mediterraneo orientale e mentre alcuni paesi hanno normalizzato le relazioni con Israele, Doha ha deciso di giocare la sua partita senza scendere a compromessi formali, tenendo la barra dritta del “sostegno alla causa palestinese”, e soprattutto mantenendosi al centro della dinamica regionale.
La Turchia continua a vedere nella questione palestinese uno strumento utile a mantenere la sua posizione di rilievo nella regione: la comune appartenenza ideologica alla Fratellanza musulmana di Hamas e del partito Giustizia e sviluppo (Akp) del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan certamente aiuta. Per Ankara, che si muove in maniera attiva nelle pieghe della politica e della cultura palestinese di Cisgiordania, è utile avere un piede anche a Gaza. Il sostegno a Hamas non è di primo piano come quello offerto da altri attori ma è comunque una sponda utile.
L’Egitto controlla parte del territorio strategico gestendo chi entra e chi esce dal valico di Rafah. Da decenni è l’interlocutore privilegiato (il cliente per eccellenza) di Washington e Israele per triangolare le trattative con i membri di Hamas. In queste ore, vista l’apparente assenza della Casa Bianca come mediatore, il ruolo del Cairo è stato da più parti evocato come determinante per raggiungere un cessate il fuoco.
Per Hamas avere tutte queste opzioni è fondamentale per sopravvivere e perpetuare il dominio sul territorio. Le elezioni interne per il rinnovo del Consiglio consultivo (Majlis ash Shura) svoltesi a febbraio in vista delle elezioni legislative palestinesi – poi rinviate sine die – hanno mostrato la pluralità di interessi e di voci nel movimento islamico.
Hamas ha prima di tutto tre dimensioni politiche, culturali e operative: a Gaza (Yahya Sinwar), in Cisgiordania (Saleh Aruri), all’estero (Khaled Mishaal, Maher Salah). Dire “estero” non basta, perché chi è basato al Cairo ha una visione e chi è a Doha ne ha un’altra. Chi si trova a Beirut e chi a Teheran non necessariamente è allineato con la dirigenza interna. Che a sua volta non ha un’unica voce: da tempo si parla di un indebolimento di Ibrahim Haniye, a capo dell’ufficio politico, e di un ritorno in pompa magna di Meshaal. Ma c’è chi afferma che Musa Abu Marzuq possa tornare in auge oppure che il miglior candidato al vertice è Salah. Si compete anche all’interno della stessa striscia tra Sinwar e due figure popolari ma poco note ai media: Khalil Hayya e Nizar Awdalla.
Contano le differenze generazionali, le relazioni personali, le contingenze legate all’accumulo di capitali, alla convergenza o divergenza di interessi politici ma molto spesso anche finanziari. Quello che però tiene unita questa struttura poliedrica è il comune interesse a tenere aperto il negozio, per continuare a esercitare potere. Anche dopo l’ennesimo scambio di razzi e bombe con Israele.
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