Sinodo: Post n. 2/3
Il Sinodo secondo Francesco
in “VinoNuovo” del 24 maggio 2021
Dopo due anni di attesa torna a riunirsi in presenza anche la conferenza episcopale italiana. Saranno giorni in cui verranno discusse e decise questioni importanti. Tra le altre l’impostazione del futuro processo sinodale italiano – sempre più ineludibile dato lo stato di sinodo permanente in cui Francesco ha messo la Chiesa universale. A tal proposito, indicazioni interessanti si possono trovare nel discorso che il 30 aprile Papa Francesco ha rivolto ai membri del consiglio nazionale dell’Azione cattolica italiana (AC). Dato che tale discorso (anch’esso direbbe qualcuno) è passato un po’ in sordina – e prima di ascoltare quello di oggi pomeriggio – vale la pena attirarvi l’attenzione nella speranza che le nostre vedette possano trovarvi tracce di cammino e spunti di ispirazione.
Sulla Chiesa sinodale, il vescovo di Roma è stato molto chiaro su quali accenti debbano essere messi dal punto di vista pastorale e teologico. Si tratta di praticare «una forma alta e esigente di ascolto», ma – attenzione! – nel senso innanzitutto teologico di un «ascolto dello Spirito e di quella voce di Dio che ci raggiunge attraverso il grido dei poveri e [dei] peccatori». In altri termini, si tratta di «ritrovare e annunciare nella storia i segni della bontà del Signore», perché Egli sta già «camminando ‘in incognito’ nella storia», senza che ciò significhi «”diluire”» l’evangelizzazione o «”annacquarla”».
Tutto ciò non è altro che quanto auspicavamo qui con Gilberto Borghi e Sergio Di Benedetto quando scrivevamo che oggi non è tanto il mondo ad aver smarrito Cristo (e la sua divinità) ma la comunità ecclesiale ad aver dimenticato – o a non essere più molto convinta di – quanto insegnato dal Concilio Vaticano II (GS 44) sul rapporto con il mondo e con il Dio unitrino che in esso già è all’opera e ci anticipa. O, similmente, quanto sottointeso all’analisi che ho proposto dei gesti e delle parole sanremesi di Achille Lauro o alla difesa (sempre che ve ne fosse bisogno) del cammino teologico di Hans Kung o della rubrica domenicale curata da padre Spadaro su Il Fatto quotidiano.
D’altronde, solo se la raccomandazione antropologica rivolta dal Papa alla Chiesa – «ascoltare i vostri territori, sentendone i bisogni, intrecciando relazioni fraterne» ed essere «fermento di dialogo» – non è fine a sé stessa, non è il «guardarsi allo specchio» dell’«autoreferenzialità», ma è veramente un essere «docili allo Spirito» e alla Sua «presenza», allora questo ascolto divino-umano potrà essere realmente un «imparare» – Dio – da «tutti» (compresi Lauro e Il Fatto quotidiano), un «confrontarsi [e] accogliere l’imprevisto» – di Dio – che si manifesta dietro e oltre l’apparente «disordine», «chiasso», «rumore», «grido» – dell’umano – che percepiamo inizialmente come dissonante e (forse eccessivamente) «rivoluzionario». Perché, altrimenti, non avrebbe senso quanto affermato dall’apostolo (non a caso) delle genti in 1Ts 5,19-21: «non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono». E avrebbe invece molto più senso riconoscere che a questa ‘cosa’ non ci crediamo (ancora) o che siamo stanchi di crederci.
Ugualmente, solo sulla base di queste premesse teologiche e antropologiche può avere senso affermare, con il vescovo di Roma, che veramente il cammino sinodale «non sappiamo come finirà e non sappiamo le cose che verranno fuori» da esso. Che si cominci «dal basso» (ripetuto da Francesco per tre volte) o che la «luce dall’alto al basso» venga dallo «stile» indicato dal Papa al convegno di Firenze del 2015, la questione dirimente per uscire da ogni equivoco o pia intenzione mi sembra essere la seguente: una volta compiuta la «kenosi» auspicata dal vescovo di Roma ed abbassatici con misericordia, umiltà, disinteresse e letizia, «che fare» con il peccatore – ma soprattutto con il peccato – che incontriamo?
Nella prospettiva di Francesco, infatti, il cammino sinodale deve stare anche attento, da un lato, a «partire dalla realtà, non dalle tre o quattro idee che sono alla moda o che sono uscite nella discussione», ma, dall’altro lato, «a incidere in essa, per farla crescere nella linea dello Spirito Santo, per trasformarla secondo il progetto del Regno di Dio».
Se però, in quanto Chiesa (pensiamo qui alla recente intervista del cardinal Ruini), siamo certi a priori di saper identificare peccato e peccatore, effettuandone una diagnosi corretta; se come Chiesa siamo certi a priori di saper effettuare una prognosi corretta e di sapere il modo per curare (se non guarire) il peccatore (se non anche il suo peccato), come possiamo pensare che non vengano così quasi azzerate le condizioni di possibilità affinché si realizzino le premesse antropologiche e teologiche suddette? Affinché possa avvenire l’imprevisto di imparare qualcosa di inatteso e inaudito, soffiato dallo Spirito del Padre e del Figlio già presente nelle storie degli altri?
Nella «realtà», infatti, il malato evangelico – il peccatore – potrebbe innanzitutto rifiutare diagnosi prognosi e cura (effettivamente) corretta. Che fare allora? Continuare a rendere ragione con mitezza (1 Pt 3,15-16)? Forzare a riceverla (Lc 14,23)? Prenderne atto e scuotere i sandali (Mt 10,14)? Dissentire e fulminare (Lc 9,54)? Ma soprattutto – questo è il punto decisivo – diagnosi prognosi e cura del peccato potrebbero rivelarsi a posteriori, per la grazia di Dio che è nel (presunto) peccatore, tali da dover essere corrette secondo quello che si rivela essere a posteriori il (nuovo o vero) «progetto del Regno di Dio», la (nuova o vera) «linea dello Spirito Santo», che pensavamo di conoscere a priori. Che cosa fare allora? Si trasforma, si fa crescere, si corregge la realtà (presunta) peccaminosa (ma rivelatasi ispirata)? O si trasforma, si fa crescere, si corregge la dottrina (rivelatasi invece incompleta)?
Francesco non alludeva forse anche a queste problematiche, quando nel discorso di Firenze del 2015 invitava la Chiesa italiana a relazionarsi coi peccatori incontrandoli, anche di nascosto (Gv 3,1-21)? Mangiando e bevendo insieme a loro (Mc 2,16; Mt 11,19)? Conversandoci (Gv 4,7-26) e facendosi toccare da loro (Lc 7,36-50)? Soprattutto, dialogando con loro anche adirandosi, ma sempre accogliendone «la critica» e compiendo «l’esodo necessario» affinché ogni nostra teologia non diventi «ideologia»? E praticando tutto ciò prima – e forse oltre – ogni nostra «denuncia» e «risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico»?
È chiaro che già solo affrontando tali questioni un eventuale sinodo avrebbe parecchio materiale su cui discutere e pregare. Così come è altrettanto chiaro che il motivo per cui nel discorso all’AC Papa Francesco afferma che il percorso sinodale deve condurre a «scelte praticabili» che siano il frutto, non solo di una «discussione» e di un «accordo» di «maggioranza», ma anche di «preghiera, silenzio, discernimento», non risiede in qualche ostilità verso forme di «’parlamento cattolico’», bensì nella consapevolezza della complessità sia delle problematiche da affrontare che delle possibili «soluzioni»: anche qui, crediamo e speriamo che l’auspicio del Papa dipenda dalla convinzione che ogni pur necessaria e fondamentale discussione sinodale si apra, nello Spirito, alle «audaci e creative», ma spesso non immediatamente comprensibili, profondità (del volere) di Dio (1Cor 2,10).
A questo punto, diventa anche certo che il tipo di persona che dovrebbe incarnare questo stile teologico e pastorale, questa sorta di paradossale «presenza [che] non fa rumore» – e perciò capace di intercettare lo Spirito – assomiglia molto al rabdomante o alle sonde lanciate nello spazio, e se proprio non possiamo (o vogliamo) porci in uscita almeno al telescopio spaziale Hubble. Ma anche su questo, in vista delle nuove nomine, il Papa è stato chiaro: innanzitutto i «programmi», i «progetti» e i relativi «organigrammi» sono al massimo un «punto di partenza», danno il via all’«ispirazione», altrimenti o in loro assenza si finisce nel pressapochismo disorganizzato (come avvertiva Daniele Gianolla), oppure essi diventano poco evangelici «piani» di «conquista», fautori dell’«illusione del funzionalismo» e delle «cose “perfette”» (secondo quello che sembra essere il timore principale di Francesco).
In secondo luogo, il «diritto» che i laici hanno alla loro «promozione» e all’ascolto della loro «voce» non deve mai diventare «clericalizzazione» degli stessi. Tale eterogenesi dei fini, però, sembra essere inevitabile finché, come suggerito da Andrea Grillo e Serena Noceti, non si uscirà dall’uso equivoco del termine “laico” e, aggiungerei, non si comprenderà come Chiesa che, quando siamo in uscita o estroversi, l’altro ‘ricercato’ non può essere né deve rispecchiare l’apriori che già possediamo: altrimenti – di nuovo – come rendere possibile l’evento che l’altro ‘trovato’ al termine dell’uscita sia, appunto, un «imprevisto» da cui «imparare» qualcosa – di Dio – non già saputo?
Un buon esercizio in tal senso potrebbe intanto essere quello di evitare di sottostare alle leggi della burocrazia (anche ecclesiale), la quale spesso immagina ed esegue le proprie riforme istituendo nuovi organi (spesso doppioni di altri) che finiscono per raddoppiare anche l’“incrostazione” che si vorrebbe “purificare”, quando invece si dovrebbe valorizzare – e poi rafforzare, anche istituzionalizzandolo – ciò che nella Chiesa è già da tempo in uscita estroversa (ad esempio su VinoNuovo abbiamo spesso indicato gli insegnanti e gli sposi). Sempreché avvenga, questa uscita estroversa, nel modo sopra auspicato: non ossessionato dal trasmettere agli altri un depositum fidei già d(on)ato e confezionato, ma desideroso di scoprire negli altri ciò che attualizzerà e rinverdirà quel depositum fidei; non concentrato esclusivamente sul proprio dono – ricevuto in passato da Dio – da regalare, presentare agli altri, ma anche e forse oggi innanzitutto sul regalo, sul presente – di Dio – che gli altri possono essere per noi.
(2/3 - Continua)
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