in “Corriere della Sera” del 24 maggio 2021
Nella Piazza Habima, David Grossman guarda con speranza alla folla che, a Tel Aviv, issa cartelli inneggianti alla pace, alla tolleranza, alla coesistenza. Valori che - ripete più volte lo scrittore - sono in pericolo in Israele, adesso. Al suo fianco, il leader della lista araba unita Ayman Odeh, la parlamentare del partito di sinistra Meretz, Tamar Zandberg e la cantante Noa. «Sono fiera di essere qui - dice Noa prima di esibirsi -. Quelle che vede stasera su questa piazza, sono le migliori persone di Israele, quelle che lottano da anni e costantemente per la coesistenza e per la pace». Sono, tra gli altri, i movimenti "Standing Together", "Peace Now" e "Breaking the Silence".
Permettetemi di dedicare le mie parole ai bambini che vivono in Israele nelle zone in prossimità di Gaza e ai bambini di Gaza e a tutti i bambini che hanno vissuto sulla pelle e nell’anima l’ultima guerra. La smania di ognuna delle parti in guerra di «incidere nelle coscienze» la sua vittoria ha creato migliaia di piccole sconfitte. Un’intera generazione di bambini, a Gaza e a Ashkelon, presumibilmente crescerà e vivrà con il trauma dei missili, dei bombardamenti e delle sirene. A voi bambini, sulle cui coscienze questo conflitto ha inciso davvero, io sento il bisogno di chiedere scusa, perché non siamo stati capaci di creare per voi la realtà migliore e più sana a cui ogni bambino di questo mondo ha diritto. L’ultima guerra ha dimostrato una volta di più fino a che punto le due parti, Israele e Hamas, sono bloccate, prigioniere del letale circolo vizioso da loro stesse creato. Fino a che punto agiscono ormai da decenni come un meccanismo automatico capace solo di ripetere le stesse azioni, ancora e ancora, con forza sempre crescente. Un’altra pioggia di razzi e un altro bombardamento, e poi pioggia di razzi. E di nuovo lo stesso noto ritmo martellante, sempre più incalzante, che si autoalimenta e offusca la capacità di giudizio.
Poi arriva il momento in cui è evidente che la guerra si è esaurita, e tutti lo sanno, in Israele e a Gaza, ma non sono in grado di smettere, non è possibile smettere, come se la forza fosse diventata il fine stesso invece che il mezzo. Questo gigantesco stantuffo continua a colpire senza sosta, a Be’er Sheva e a Gaza. E può continuare per l’eternità — il meccanismo non è dotato di dispositivo di autospegnimento — a meno che Joe Biden non agiti un dito, e di colpo ci svegliamo dall’incantesimo ipnotico della distruzione, ci guardiamo intorno e chiediamo: cos’è successo qui? Cos’è successo di nuovo? E perché sentiamo che gli elementi più estremisti nel conflitto ci hanno manipolati un’altra volta? Com’è possibile che dopo l’inferno che hanno vissuto milioni di persone, a Gaza e in Israele, ci ritroviamo di fatto vicinissimi al punto di partenza?
E più di tutto chiedo, com’è possibile che Israele, il mio Paese, uno Stato che dimostra forze immense quando si tratta di creatività, di inventiva e di audacia, trascini da ormai più di un secolo le macine di pietra di questo conflitto e non sia in grado di trasformare la sua enorme forza militare in una leva che modifichi la realtà, che ci liberi dalla maledizione delle guerre periodiche? Che ci apra un’altra strada?
È vero, fare la guerra è più facile che fare la pace. Nella realtà in cui viviamo, la guerra si tratta solo di continuarla, mentre la pace costringe a processi psichici difficili ed elaborati, processi che popoli abituati quasi solo a combattere vivono come una minaccia. Noi israeliani ci rifiutiamo ancora di capire che è finito il tempo in cui la nostra forza può determinare una realtà comoda solo per noi, per le nostre necessità e per i nostri interessi. L’ultima guerra ci farà entrare finalmente in testa che da un certo punto in poi la nostra potenza militare non è quasi più rilevante? Che per quanto grande e pesante sia la spada che brandiamo, in fin dei conti qualunque spada è un’arma a doppio taglio?
Questa guerra è finita, ora la domanda bruciante è cosa succederà all’interno di Israele, ai rapporti tra arabi ed ebrei. Quanto è accaduto per le strade delle città israeliane è terribile. Non ha giustificazione. Il linciaggio di persone solo perché sono ebree o arabe rappresenta il livello più infimo di odio e crudeltà. Le vittime sono state uccise, la loro umanità negata. Gli assassini si sono trasformati, in quei momenti, in bestie.
Ma adesso — quando gli spiriti si sono raffreddati e lo Stato di diritto comincia finalmente ad assicurare i criminali alla giustizia — si può parlare di quanto è accaduto, cercare di capire cosa è venuto a galla dalle due parti, e delle radici di quanto è accaduto. Perché è dalla possibilità di comprendere che dipende il futuro di noi tutti, ebrei e arabi. Israele potrebbe trovarsi a breve ad affrontare le quinte elezioni. Gli eventi del mese di maggio e la virulenza dell’odio esploso fra arabi ed ebrei occuperanno un posto centrale nella campagna elettorale.
È facile indovinare che i politici sfrutteranno le angosce e la diffidenza, il razzismo e la brama di vendetta. Gli istinti più bassi che hanno fatto capolino nella realtà israeliana diventeranno il combustibile della prossima campagna elettorale e i sobillatori avranno vita più facile che mai. Tutti, ritengo, sappiamo chi ci guadagnerà. Tutti sappiamo anche che aspetto avrà la realtà in questo Paese se saranno gli estremisti nazionalisti e i razzisti a stabilire le leggi. Perciò la vera lotta oggi non è tra arabi ed ebrei, ma fra quanti — dalle due parti — anelano a vivere in pace, in una convivenza equa e quanti — dalle due parti — si nutrono, psicologicamente e ideologicamente, di odio e violenza.
Magari riuscissimo a ristabilire e irrobustire le forze sane nelle due società, coloro che fra noi si rifiutano di diventare collaborazionisti della disperazione. Così se anche dovesse scoppiare un’altra ondata micidiale come questa — e io temo che scoppierà ogni qualche anno — potremo resisterle in modo lucido e maturo, come sembra stia accadendo già in questi giorni, con un’infinità di incontri e dibattiti e iniziative straordinari. Come dimostriamo noi, che ci ritroviamo qui alla manifestazione, con la nostra risolutezza, con il nostro attaccamento all’idea di pace e uguaglianza, con la cooperazione equa fra i due popoli, e con il nostro «nonostante tutto», la fonte di speranza più grande in questi giorni bui, speranza grazie alla quale rimane possibile ritrovare la strada quasi perduta, la strada tortuosa e ardua per vivere qui insieme, in completa uguaglianza e in pace, arabi, ebrei, esseri umani.
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