Ogni dittatore ha una retorica che rivela i suoi motivi profondi, più di quanto egli stesso creda. Nei Paesi più popolosi, il punto di arrivo è quasi sempre la guerra: la violenza applicata sistematicamente in politica interna inizia ad apparire, agli occhi del leader, lo strumento più utile anche in politica estera. A quel punto l’attacco a un altro Paese diventa solo questione di tempo. Benito Mussolini per esempio si presentava come il capo di una “nazione proletaria”, che aveva diritto al proprio “posto al sole”, dopo la “pace ingiusta” del 1919 in cui all’Italia “non toccarono che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui”. Questo insieme di credenze lo proiettò a partire dal 1936 verso una serie di aggressioni catastrofiche e trova oggi assonanze nel discorso pubblico di Vladimir Putin. A quasi un secolo di distanza, molti degli stessi temi risuonano nell’oratoria nei due uomini. Come il fascismo odiava la pace di Versailles, il leader russo esprime rancore per gli accordi che misero fine alla guerra fredda. La “vittoria mutilata” delle camicie nere trova il suo riflesso nella Russia “derubata” degli ultimi interventi di Putin.
Il mito dell’arroganza e del carattere infido delle potenze dominanti è presente nell’ideologia mussoliniana come nella narrazione del Cremlino di oggi. Dietro tutta la retorica di Putin si avverte la stessa profonda sedimentazione di risentimenti, ossessioni, circuiti mentali percorsi e ripercorsi mille volte tipici dei dittatori europei degli anni ’20 e ’30 del Novecento. Sono quelli che in queste settimane hanno riportato la tragedia nel cuore d’Europa. I testi principali del dittatore russo, per capire le radici della guerra ucraina, sono tre: il discorso alla Conferenza per la sicurezza di Monaco nel gennaio del 2007, il saggio del luglio 2021 “sull’unità storica di russi e ucraini” e l’annuncio dell’“operazione militare speciale” del 24 febbraio scorso. Tutto è lì dentro. Agente segreto vissuto a lungo dissimulandosi, Putin in questi interventi non potrebbe esprimere in modo più trasparente la sua visione del mondo e le sue vere intenzioni. Basta ascoltarlo.
La Proxy War
Quello che ne viene fuori è il profilo di una “proxy war”, una guerra per procura in cui l’Ucraina è ben lontana dall’essere il solo obiettivo. Sul suolo dell’ex Repubblica socialista sovietica che cerca un proprio futuro democratico, Putin vuole aprire un conflitto contro l’Occidente che riscriva contro la Nato (e l’Unione europea) i termini della pace continentale emersa dal crollo del Muro di Berlino. Il discorso di Monaco di Baviera segnò all’epoca uno choc per la comunità internazionale, fino ad allora cullatasi nell’idea che la Russia fosse destinata a una lenta transizione verso la democrazia e a un rapporto cooperativo con l’Occidente. Si era nel gennaio 2007, all’antivigilia della grande crisi finanziaria e al sesto anno di occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan. Le guerre volute da George W. Bush dopo l’11 settembre apparivano sempre più prive di uscita e quella in Iraq, in particolare, ormai del tutto ingiustificabile. In quel momento era fresco nella memoria anche il bombardamento di Belgrado da parte della Nato nella primavera del 1999, volto a fermare una guerra in Kosovo per la quale Slobodan Milosevic sarebbe stato processato da un tribunale delle Nazioni Unite per crimini contro l’umanità (sottoposto a 66 capi d’accusa legati alle guerre nei Balcani, il leader serbo morì prima del giudizio).
Il discorso al Bayerischer Hof di Monaco
Questo era il retroterra quando dal palco una sala conferenze del Bayerischer Hof, un hotel a cinque stelle nel cuore di Monaco, Putin rivelò all’Occidente un volto mai mostrato fino ad allora. Avvolto in un elegante completo nero, cravatta nera a strisce bianche oblique su una camicia bianchissima, quel giorno il leader russo fu ostile, tagliente, spigoloso. Fu carico di rancore. Esordì citando una frase di Franklin D. Roosevelt che oggi suona sinistra: “Quando la pace viene infranta in un luogo qualunque, la pace di tutti i Paesi è in pericolo ovunque”. Ovviamente Putin parlava allora dell’avventura irachena di Bush figlio e del fatto che la comunità internazionale non si ribellasse ad essa. Disse: «La guerra fredda ci ha lasciato in eredità le sue munizioni: gli stereotipi ideologici, i doppi standard» (voleva dire: quel che non è accettabile se fatto da noi, lo diventa quando lo fanno gli americani) ma «neanche il mondo unipolare che ci è stato proposto dopo la guerra fredda ha avuto luogo».
Questo è un punto centrale della narrazione putiniana, un aspetto di cui il leader russo è sinceramente convinto: il ruolo destabilizzante delle guerre e degli interventi occidentali, soprattutto quello contro l’Iraq condotto senza mandato delle Nazioni Unite e sulla base di accuse sulle armi di distruzione di massa che poi si rivelarono del tutto false. Nel suo discorso di Monaco, Putin torna più volte su questa contraddizione. «A noi vengono costantemente impartite lezioni di democrazia, ma per qualche ragione coloro che insegnano non vogliono essi stessi imparare», dice quel giorno il leader russo alla platea dove sedevano gli uni accanto agli altri Angela Merkel, l’allora presidente ucraino Viktor Yuschenko (sopravvissuto a un misterioso avvelenamento nel 2007), il segretario alla Difesa americano Robert Gates e il senatore John McCain. Ed è curioso, perché quella stessa frase una frase meno due anni più tardi sarebbe stata ripetuta dal vicepremier cinese Wang Qishan nel pieno della crisi finanziaria americana: «Il maestro sta incontrando qualche problema».
Di certo Putin quel giorno al Bayerischer Hof di Monaco è consapevole di interpretare la visione di tante potenze emergenti, quelle che allora si chiamavano Brics (da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Afferma l’uomo del Cremlino: «Il modello di un mondo unipolare (a guida americana, ndr) non solo è inaccettabile, ma è anche impossibile (...). Azioni unilaterali e di frequente illegittime non hanno mai risolto i problemi (...). Oggi nelle relazioni internazionali assistiamo a un uso della forza quasi senza limiti, che sta sprofondando il mondo in un abisso di conflitti permanenti». Il risultato, conclude Putin a Monaco, è che »nessuno si sente sicuro. Voglio sottolinearlo: nessuno si sente sicuro!».
L’antiamericanismo
Queste parole suonano paradossali, perché il dittatore russo oggi potrebbe rivolgerle a se stesso. Ma all’inizio del 2007, dopo il fiasco di Bush in Iraq e prima che la crisi finanziaria svelasse per la prima volta la fragilità dell’Occidente dopo il crollo del Muro di Berlino, hanno un altro significato: rivelano il timore che l’America voglia imporre agli altri Paesi dei leader scelti a Washington; tradiscono un fastidio verso il momento unipolare americano che stava diventando sempre più diffuso soprattutto nei sistemi autoritari del mondo emergente. Dell’Occidente che pensava di assurgere a polizia del mondo con gli interventi umanitari dell’ex Jugoslavia o l’esportazione della democrazia in Iraq e Afghanistan, a Mosca o a Pechino si percepiva soprattutto quella che appariva come pura ipocrisia. A Monaco leader russo se la prende direttamente con l’allora ministro della Difesa italiano Antonio Martino, che aveva dichiarato quel giorno stesso: l’uso della forza è legittimo solo se la decisione viene presa dalla Nato, dall’Unione europea o dalle Nazioni Unite. «O io non ho capito bene – replica Putin a Martino, seduto in platea – oppure quel che lei ha detto è inesatto. L’uso della forza è legittimo solo se è sancito dalle Nazioni Unite. Non abbiamo bisogno di sostituire l’Onu con la Nato o la Ue».
Le contraddizioni di Putin
Niente di tutto questo spiega o giustifica le aggressioni russe di questi anni, anche perché Mosca ricade nelle contraddizioni che rinfaccia agli americani e agli europei. Ma sarebbe impossibile capire il percorso psicologico di Putin fino al martirio di Mariupol, senza mettere nel conto questo rancore verso l’Occidente all’apice del suo momento unipolare: ciò che esprime l’uomo del Cremlino è quanto anche cinesi, indiani, pachistani o sudafricani avvertono. Non a caso gli stessi Paesi si sono astenuti alle Nazioni Unite alla risoluzione di condanna della Russia questo mese. Sarebbe è impossibile leggere la struttura mentale di Putin senza tenere conto di questo retroterra, così come è impossibile ricostruire la formazione politica di Mussolini o di Hitler senza l’esperienza e il mito della “pace ingiusta” di Versailles.
Già a Monaco nel 2007 però il leader russo muove anche un passo in più: per la prima volta, si rifiuta di riconoscere la legittimità dell’ordine di sicurezza europeo emerso dalla Guerra fredda. L’implicazione allunga la sua ombra sulla guerra di oggi, perché essa rappresenta il tentativo più concreto di sovvertire l’equilibrio continentale emerso dopo il crollo del Muro. Putin già nel 2007 dice che la Nato avrebbe violato l’impegno a non allargarsi ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia e questa stessa (presunta) inaffidabilità costituisce una (di nuovo, presunta) minaccia per la Russia. «L’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’alleanza o con il garantire la sicurezza in Europa – dice –. Al contrario, rappresenta una grave provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. Contro chi è finalizzata questa espansione?».
(Federico Furbini per il Corsera)
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