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II di Pasqua – Gv 20,19-31

Non si "vede" il Signore da soli e non si tratta di una semplice apparizione ma di ben altro

La foto sulla "Carta di Identità di Gesù? Non il suo volto, ma le sue mani e il suo costato feriti


La piccola comunità dei discepoli di Gesù (non solo gli Apostoli) si è rinchiusa per paura. L’averne per qualsiasi motivo come pure ogni situazione di difficoltà, sollecita l’istinto di conservazione, costringe a prendere coscienza della propria realtà e l’attenzione ricade su sé stessi per trovare le risorse per la propria autodifesa. L’esperienza comune della pandemia in questi ultimi due anni ce lo ha fatto provare.

Ma quella piccola comunità delle origini non aveva solo paura, si trovava ad essere ferita nelle sue speranze, si era vista strappare via ciò che l’aveva riunita; anche il gruppo degli Apostoli non era più integro: Giuda si era suicidato e Tommaso non era con loro. Oggi, stiamo vedendo la paura negli occhi di una nazione che si trova a fare i conti con una distruzione che non si pensava più possibile in Europa, un cristianesimo diviso in sé stesso su opposti fronti. Percepiamo che l’intera umanità è ferita nel suo corpo e nel suo sentire.

La paura può riguardare anche ogni comunità cristiana quando teme il confronto con chi la pensa e vive in un modo diverso. La reazione più facile è il rinchiudersi, l’arroccarsi, l’isolarsi, di fronte alle interrogazioni e alle provocazioni che la realtà le rivolge, volgendosi all’esterno con aggressività, intolleranza, smettendo di dialogare e di proporre. Mostra così tutta la sua debolezza e la mancanza di una piena coscienza di sé, della propria realtà diventando incapace di sostenere ogni tipo di confronto.

La paura che deriva dalla fragilità può essere vissuta anche nel cammino sinodale al quale siamo stati chiamati dal Papa, se si cerca di depotenziarlo, di svuotarlo dall’interno per la paura di dove potrebbe portare, o per difendere di privilegi di ruolo.

 

In queste situazioni, l’evangelo di oggi ci dice una cosa importante: Gesù viene e sta in mezzo, non appare e poi sparisce, lo si scopre non solo presente ma pure che non se ne va, rimane al centro della realtà vissuta. A fare cosa? A rassicurare, a invitare a prenderne piena coscienza, a fare della fragilità la propria forza: “ci sono io in mezzo a voi; coraggio, proseguite il vostro cammino. Voi siete oggi e sarete quello che diventerete domani anche grazie a quanto state vivendo. Non rimanete ripiegati su di voi stessi, rialzatevi e riprendete il cammino”. 

È questo il significato di quell’annuncio che compare tre volte in questa pericope evangelica: “Pace a voi!”, la radice ebraica di Shalom esprime proprio tutto questo, non l’assenza di conflitti.

 

I discepoli gioiscono e annunciano a Tommaso di aver “visto il Signore”. Qui Giovanni usa un verbo particolare che non riguarda semplicemente quello che gli occhi percepiscono, è un “vedere” che interpreta una esperienza vissuta. Infatti loro lo hanno riconosciuto quando ha mostrato loro le sue mani e il suo costato feriti. Normalmente riconosciamo una persona dal suo volto, se vedessimo solo le sue mani difficilmente lo riconoscemmo. Cosa significa allora queste “mani”, perché lo riconoscono nel “vederle”. Con quelle Gesù ha guarito, benedetto, accarezzato, sollevato, lavato i piedi dei discepoli; con quelle ha fatto la sua proposta e, quell’agire, è la sua proposta di vita, è la sua carta di identità. Dal suo costato ferito è uscito sangue e acqua, cioè la vita donata fino al sacrificio di sé e lo Spirito divino che ci è stato donato.

Ricordando il suo agire, percepiscono il suo permanere realmente efficace in mezzo a loro che li aiuta a fare di quelle mani bucate e di quel costato ferito anche la loro carta di identità: “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi” sapendo che non sarà indolore, che ci sarà sempre il tentativo di fermare queste mani, di inchiodarle, di impedire che mostrino l’amore e la misericordia del Padre. Lavando loro i piedi non aveva forse detto: “Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi”? e dopo aver spezzato il pane: “Fate questo in memoria di me”, cioè fate della vostra vita quello che io ho fatto della mia, pane spezzato, vino condiviso?

Per donare questa capacità, “Gesù alitò su di loro”. Solo due altre volte questo verbo compare nella Scrittura: in Genesi alla creazione dell’uomo e in Ezechiele nella visione delle ossa aride che riprendono vita. Con questo Gesù dona ai discepoli (non solo agli Apostoli) un potere efficace sul peccato, non solo la forza di perdonare, ma anche quella di “ritenere i peccati” (non di “non perdonare” come abitualmente tradotto), cioè di afferrarli per domarli e vincerli quando non possono essere perdonati.

 

Tommaso non era con loro. Forse era meno spaventato, forse più coraggioso o più irrequieto. Forse desiderava capire cosa stesse succedendo attorno a loro per poter rispondere o proteggere i suoi fratelli, forse … non lo sappiamo. Quello che si sa è che era chiamato “didimo” il “gemello”, di chi non si dice, forse per darci la possibilità di sentirci noi simili a lui e, con questo, vivere la sua stessa esperienza. Ma quale è stata? 

Nella sua incredulità possiamo certamente riconoscerci, ma è un altro l’aspetto importante: l’esperienza di “vedere il Signore” non la si fa da soli: è possibile solo in Comunità, richiede di passare attraverso la relazione con i fratelli; non aveva forse detto: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro"? (Mt 18,20). È per questo che la Comunità si riunisce ogni settimana, il primo giorno dopo il Sabato. Per poter “vedere il Signore” e, partecipando al pane unico, diventare il suo corpo e far nostra la sua carta di identità da vivere lungo tutta la settimana, negli ambienti che frequentiamo essendo le sue mani.

 

Gesù mostra il suo corpo ferito, la sua umanità – che è la nostra umanità – ferita e invita a partire da questa. Nelle sue parole non c’è alcun accenno di rimprovero verso nessuno, nemmeno a chi tentenna come Tommaso e chiede di verificare. Quel corpo ferito chiede di perdonare, ci parla di un amore vissuto fino alla fine e di uno Spirito che ha accompagnato tale amore fino a rendere le ferite, le ingiurie e la morte subita, occasione di ulteriore dono, di ulteriore amore. 

Ci chiede allora di amare l’umanità ferita dalla malattia, dall’odio, dalla diversità perché questa è la Sua carta di identità che ci propone di condividere. Questo ci chiede, non altro.

 

(BiGio)

 

 

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