Etgar Keret non scrive, guarda e pensa. La Striscia di Gaza dista meno di un'ora di auto da Tel Aviv, è lì. Da oltre tre mesi la realtà di una guerra senza precedenti ammutolisce lui come tanti altri autori israeliani, abituati a raccontare la complessità di una terra ridotta oggi al bianco e nero.
«Il processo dell'Aia è la rappresentazione dell'incomunicabilità di cui è oggi affetto il mondo, due parti contrapposte che raccontano due storie diverse per un pubblico che guarda due film paralleli. Da un lato ci sono i fatti del 7 ottobre, quasi neutri, seguiti dai crimini di un unico aggressore, ossia Israele, che di proposito, a freddo, uccide donne e bambini palestinesi. Dall'altro c'è la reazione a un attacco che tutto dovrebbe giustificare, compresa la morte dell'1% dei gazawi, compresa la vita a perdere dei civili, compreso il razionamento del cibo. Una narrativa per ciascuno dei contendenti, senza dialogo né possibilità di giustizia. È deprimente. Ci sono cose intollerabili nel modo in cui Israele combatte la guerra e ce ne sono altrettante nel comportamento di Hamas prima e dopo il 7 ottobre, ma parlare di genocidio è estremo. La realtà non è fiction. Invece è come se per il Sudafrica i palestinesi fossero Harry Potter di fronte a Israele-Goldamor e per gli altri l'esatto contrario, senza che nessuno possa spiegare o cambiare idea. È folle».
L'intera intervista a cura di Francesca Paci è a questo link:
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