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La difesa di Israele e la politica della memoria

L'identità israeliana si costruisce nell'identificazione con le vittime della Shoah fino al punto di iscriversi nel concetto di genocidio. E dunque che il genocidio sia perpetrato invece che subito, è inconcepibile. Ma questa è una memoria centripeta: dice «mai più questo deve accadere a noi». E non invece «a nessuno». Solo quest'ultima sarebbe una memoria «universale».


«Lo stato di Israele sa fin troppo bene perché la Convenzione sul genocidio, che è stata invocata in questo procedimento, fu adottata». Si apre così l’arringa di Tal Becker, il primo avvocato della squadra di difesa israeliana alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. La «memoria collettiva di Israele» è evocata immediatamente dopo, insieme con il richiamo a Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che coniò il termine.

Non gli bastava – aggiungiamo noi – il termine «sterminio» usato a Norimberga, e neppure «crimine contro l’umanità», coniato da Hersch Lauterpach, un altro giurista sopravvissuto alla Shoah. Uccidere persone perché appartenenti a un certo gruppo e con l’obiettivo di sradicarlo è peggio che ucciderle senza questa specifica intenzione. Che è poi la parte dell’accusa più difficile da provare, nonostante le oltre 60 citazioni e le 9 pagine di riferimenti ad alti funzionari israeliani, non sanzionati dal loro governo.

È di questo «elemento soggettivo» che vogliamo occuparci: delle sue implicazioni psicologiche e morali ma anche filosofiche, sia dal punto di vista degli accusatori che degli accusati. Sgombriamo anzitutto il terreno dagli equivoci....

La riflessione di Roberta De Mondicelli continua a questo link:

https://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/RaSt202401/240121demonticelli.pdf

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