Gesù non "esce" ma "sale" dall'acqua. La voce dal cielo non dice "Io sono tuo padre" ma "Tu sei il figlio mio" e non “sei mio figlio”. Non sono sottigliezze ininfluenti ma differenze sostanziali.
“L’eccomi” di Dio in Gesù è quanto abbiamo celebrato in questo periodo ed oggi la Liturgia, come in flash-back, ci riporta sulle rive del Giordano dove nella II di Avvento ci ha fatto incontrare Giovanni Battista che annunciava la venuta di “uno che è più forte” di lui di fronte al quale non era degno di chinarsi “per sciogliere i legacci dei suoi sandali”.
“Uno” in mezzo alla folla che “usciva” da Gerusalemme e da tutta la Giudea, cioè dalle situazioni bloccate di soffocante potere che non permette di alzare lo sguardo, rimanere attenti, svegli, capaci di percepire i germi di salvezza seminati da Dio.
“Uno” un anonimo che fa pensare in controluce alla profezia di Mosè “Il Signore susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta …” (Dt 18,15) che Israele attendeva ed attende e per il quale una sedia nelle tribune delle Sinagoghe è sempre vuota, pronta ad accoglierlo.
“Uno più forte” ma che si presenta umile, un uomo come tanti che si fa battezzare da Giovanni che non lo riconosce “e subito” accade qualcosa di inatteso, di eccezionale che, in Marco, coinvolge solo Gesù e nessun altro quando non “uscendo” ma “salendo dall’acqua vide squarciarsi i cieli …” non è una sottigliezza nella traduzione perché immergersi nell’acqua significava discendere nella morte. Qui l’evangelista desidera farci comprendere che Gesù non sarà preso dalla morte, ma risorgerà (è questo il verbo usato) perché lui è più forte di questa.
Scendendo nell’acqua assieme ai peccatori Gesù mostra di voler condividere la loro condizione, d’altra parte il peccato estende la sua ombra su tutta la comunità; si mette al loro fianco per accompagnarli nell’esodo dalla schiavitù alla libertà, al servizio del Padre. Essere usciti da Gerusalemme e dalla Giudea per andare da Giovanni, avevano riattraversato il Giordano e, quindi, simbolicamente si erano resi disponibili ad un nuovo percorso nel deserto come quello compiuto dai padri dall’Egitto alla Terra promessa.
“Squarciarsi” non semplicemente “aprirsi”. Quello che si apre può richiudersi, ciò che è squarciato è rotto irreparabilmente. Marco usa un verbo che nel suo Evangelo compare solo un’altra volta quando, alla morte di Gesù: “il velo del tempio si squarciò” e non compare in nessun altro posto di tutte le Scritture cristiane e solo in un altro caso in quelle ebraiche. Con questo ci vuole dire che la relazione con Dio ridiventa immediata, senza intermediari compiendo la speranza di Israele.
Negli ultimi secoli prima di Cristo, gli ebrei avevano avuto la sensazione che il cielo si fosse chiuso. Sdegnato per i peccati e le infedeltà del suo popolo, Dio aveva smesso di inviare profeti e sembrava aver rotto ogni dialogo con l’umanità. Ecco allora quel grido che abbiamo ascoltata la I Domenica di Avvento: “Ah, se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19); quello squarcio è l’affermazione che Dio sta sempre dalla parte degli uomini fino a confondersi con loro, a condividere totalmente la loro realtà.
Contemporaneamente Gesù vede “lo Spirito discendere su di lui come una colomba” per dargli la forza di portare a compimento il compito affidatogli dal Padre che lo porterà ad affermare nella Sinagoga di Cafarnao d’essere stato “consacrato con l’unzione” d’essere stato “mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati …” (Is 61,1).
Marco ricorre all’immagine della colomba i cui riferimenti biblici sono molti: dallo “Spirito che aleggiava sopra le acque” (Gn 1,2), alla colomba del diluvio che alla fine torna da Noè con un ramoscello di ulivo in bocca in segno di riappacificazione. Questa colomba – dice il Talmud – quando il cielo era chiuso, vagava e non trovava nessuno su cui posarsi, quindi tornava a Dio. Ora, invece, trova Gesù sul quale posarsi. Ma c’è pure un altro riferimento possibile: colomba in ebraico si dice “yonah” che evoca subito il profeta Giona inviato a Ninive, città pagana, immagine dell’annuncio esteso a tutte le genti (Gn 8,11).
Non solo Gesù vede lo Spirito scendere, ma sente anche una voce dal cielo. Potremmo esserci aspettati di sentir dire: “Io sono tuo padre…” e, sappiamo, che “Io sono” indica il Tetragramma, il nome di Dio pontificando dal suo alto scanno. Invece inizia con un “Tu sei mio figlio…” che istituisce l’altro aprendo la possibilità di un dialogo. che poi continua con ciascuno di noi. Inoltre, non dice “sei mio figlio” che avrebbe significato unicità di possesso, bensì “sei il figlio mio” che apre a tutti l’essere figli suoi sui quali pone ugualmente la sua gioia, il suo amore indipendentemente da quello che noi facciamo.
Riannodando tutti i fili, questa pagina di Evangelo così breve ma altrettanto densa che abbiamo appena scalfito, riassume quanto questo periodo natalizio ci consegna: un Dio che ci dice “Eccomi” scegliendo di iniziare dalle pecore smarrite e disperse, dagli scarti della società ma capaci di guardare avanti con curiosità, rialzarsi contro ogni speranza disillusa e difficoltà, di scorgere il nuovo che avanza ed abbracciarlo camminando assieme. Gesù “immerso” nell’umanità e noi in lui a fare una cosa sola. Questo è solo l’inizio.
(BiGio)
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