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Dare spazio effettivo all’esercizio della responsabilità ecclesiale

Per esprimere la propria responsabilità civile, il cittadino è chiamato ad esercitarla con il voto (oltre che facendo la spesa); quali forme assume l’esercizio della responsabilità ecclesiale per un fedele cattolico? 

Nonostante la dichiarazione del diritto canonico, che la parrocchia sia una “comunità di fedeli” (can. 515), il codice sancisce che l’unico rappresentante di detta comunità sia il parroco (can. 532), escludendo qualsiasi organismo rappresentativo o processo di acquisizione di tale rappresentatività, attribuitagli di fatto dalla nomina episcopale e acquisita al momento della “presa di possesso” della parrocchia (can. 527).


L’azienda-parrocchia

Insomma, nello stato attuale del diritto ecclesiastico latino, il parroco rappresenta tutti gli abitanti (battezzati) del territorio parrocchiale, che essi lo vogliano o meno, attraverso la semplice assunzione del ruolo di parroco. È dunque inevitabile che il rapporto che si instaura tra lui e i suoi parrocchiani sia un rapporto di forza, gerarchico e asimmetrico: nella logica consumistica, a cui siamo sempre più avvezzi, i fedeli sono i fruitori del servizio pastorale e il parroco il fornitore.

Questa logica è tutto fuorché sinodale, è la logica della prestazione di servizio, avallarla senza dibattito significa avallare la figura di un’azienda-parrocchia, in cui il parroco, di buon grado o meno, è costretto a svolgere la funzione manageriale di amministratore delegato, senza averne le competenze specifiche, anzi, con una formazione centrata sui contenuti delle verità da trasmettere e sullo spirito con cui testimoniarle, piuttosto che sui metodi e sulle forme con cui gestire l’azienda.

Attualmente quindi la struttura ecclesiale di base si configura come binomio asimmetrico parroco-fedeli piuttosto che comunità. La forma comunitaria, benché sancita dal codice, stenta a riconoscersi, non prende forma, se non attraverso la mediazione volenterosa e benemerita di parroci e fedeli, che cercano in qualche modo di supplire alle carenze del codice, promuovendo forme e organismi partecipativi efficaci, al di là delle indicazioni canoniche, fin dove e fin quando si riesce.

Dare soggettività giuridica alla comunità
In effetti, gli organi partecipativi previsti dal codice, chiamati a incarnare quella vocazione sinodale propria della realtà ecclesiale, sono irrilevanti, perché espressione della logica bipolare e con funzione semplicemente consultiva (can. 536, §2).

Fin tanto che il criterio di sinodalità non intaccherà la struttura ecclesiale di base, dando alla comunità di fedeli una soggettività giuridica propria, che attualmente non ha, non potremo parlare di una chiesa davvero sinodale.

Ora, cosa comporta dare soggettività giuridica alla comunità di fedeli? Innanzitutto disinnescare la deriva gerarcologica sottolineata dalla Cti, quella che in più occasioni papa Francesco definisce con il termine più generico di “clericalismo”, ma che non è solo un’attitudine interiore di clero e laici: occorre cioè destrutturare il binomio su cui si fonda l’attuale visione clericale della realtà parrocchiale.

In altre parole, si deve passare dalla visione societaria tradizionale, gerarchicamente strutturata, a quella comunitaria, fondata sull’appartenenza comune, la ministerialità dei suoi membri e la valorizzazione dei loro carismi.

È la comunità parrocchiale, nel suo insieme, a rivestire una soggettività giuridica, e non solo il parroco, ed essa è collegialmente rappresentata da un consiglio pastorale, eletto dai membri stessi della comunità.

Dare spazio effettivo all’esercizio della responsabilità ecclesiale
Per esprimere la propria responsabilità civile, il cittadino è chiamato ad esercitarla con il voto (oltre che facendo la spesa); quali forme assume l’esercizio della responsabilità ecclesiale per un fedele cattolico? Se vogliamo portare a compimento il processo innescato dall’ecclesiologia di comunione, occorre dare spazio effettivo all’esercizio della responsabilità ecclesiale di ciascun fedele.

Si potrà riaffermare così la coscienza di appartenere ad un’unica collettività, senza il bisogno di distinguersi e disgregarsi in comunità di scelta. Sviluppare una sinodalità ecclesiale di base significherà così affermare che la comunità ecclesiale “è detentrice di diritto, anzi il vero soggetto, cui tutto il resto va posto in relazione” (Ratzinger 1970).

Cesare Baldi
Presbitero della diocesi di Novara. Collabora con la Caritas diocesana di Novara.

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