Il figlio che si era sciolto dai legami paterni, si trova poi legato a uno straniero che non è padre, ma padrone. Il rientrare in se stesso del giovane nasce dalla presa di coscienza dell'amore del padre restato fedele e mai venuto meno anche quando lui l'ha misconosciuto.
L’annuncio dell’amore fedele di Dio che diviene perdono è al cuore del messaggio del vangelo di questa domenica. Amore fedele di Dio significato dall’agire del padre protagonista della parabola che costituisce la pericope evangelica odierna (Lc 15,1-32). Un agire, o forse, un non-agire, che appare scandaloso e che non può non interpellarci. Il padre, di fronte al figlio che pretende di avere la parte di patrimonio che gli spetta, non si oppone, ma obbedisce. E quando il figlio, “dopo non molti giorni” (Lc 15,13) decide di andarsene, non gli si oppone e non gli dice nulla. Il padre appare senza parola e senza iniziativa: è un padre che non impone la legge del padre. Non fa un solo gesto per impedire quella spartizione anticipata dei beni che era sconsigliata dal Siracide: “Al figlio […] non dare potere su di te finché sei in vita. Non dare ad altri le tue ricchezze perché poi non ti penta e debba richiederle. […] È meglio che i figli chiedano a te piuttosto che tu debba volgere lo sguardo alle loro mani. In tutte le tue opere mantieni la tua autorità e quando finiranno i tuoi giorni al momento della morte assegna la tua eredità” (Sir 33,20-24). Questo padre sembra rinunciare alla sua autorità. Da lui nemmeno una parola per indurre il figlio a cambiare idea o per consigliarlo una volta che ha deciso di andarsene. Segno di debolezza? Di incapacità di comunicazione con i figli? Il non detto del testo consente diverse interpretazioni, ma il senso delle parabole che Gesù sta narrando, che evocano l’atteggiamento di Dio verso l’uomo, suggeriscono che questo silenzio e questa inazione siano voluti e facciano parte dell’agire di amore di questo padre che rinvia al Dio Padre esplicitamente richiamato al termine delle due prime parabole in Lc 15,7 e 10. Questo padre ha il coraggio e la forza di non fare niente. Anche una volta che il figlio minore se n’è andato, non lo va a cercare come il pastore che si mette in cerca della pecora smarrita, ma resta a casa, facendo un atto di fiducia radicale e restando in attesa. E che il suo restare a casa non sia segno di rassegnazione o di disinteresse, lo mostra il fatto che quando il figlio intraprenderà la via del ritorno, lo intravvederà ancora lontano e gli correrà incontro. A dire di un’attesa sempre vigile, di un desiderio mai scemato, di un amore mai venuto meno. A dire di un padre che ha avuto la forza di lasciare che la soggettività del giovane si manifestasse, anche in un modo che certamente gli provocava angoscia e dolore. Il silenzio del padre non è dunque segno di debolezza ma di forza nei confronti di se stesso. Ha saputo non cedere alla tentazione di incatenare il figlio alla casa per non dover soffrire lui stesso. Il padre ha accettato che l’allontanamento fosse la via per il figlio di nascere a se stesso, di incontrare se stesso. Non a caso il momento di svolta dell’itinerario del giovane sarà il “rientrare in se stesso” (Lc 15,17). Dunque, di questo aveva bisogno il figlio: di trovare lo spazio e le condizioni per prendere contatto con se stesso, per fare di se stesso la casa in cui entrare prima di poter rientrare nella casa paterna. Con sofferta intelligenza dunque, il padre non ha compiuto gesti autoritari per fermarlo, pur sapendo i rischi che il giovane avrebbe corso andando in un paese lontano. Ha accettato di vedersi sconfessato come padre e ha deciso di non attivare le funzioni di autorità e di parola, di legge e di interdetto proprie della figura paterna. Ha capito che il problema non era quello di proteggere se stesso dalla angoscia che gli avrebbe provocato l’allontanamento del figlio, ma di dare spazio al figlio, anche al suo errare e al suo errore. Ha avuto la forza di non pensarsi onnipotente e infallibile, di non ritenere di sapere lui quale fosse il bene del figlio e di imporglielo. La compassione del padre inizia già qui, nel sentire l’unicità del figlio e nel percepire la sofferenza del figlio stesso dietro alla decisione che aveva preso. La compassione del padre esploderà emotivamente al ritorno del figlio: allora le viscere paterne si spaccano (esplanchnísthe: Lc 15,20), ed ecco la corsa, l’abbraccio, il bacio, la veste migliore, l’anello, il vitello grasso, la festa. Ma questo momento non è che l’epifania di una sofferenza con e per il figlio, di un com-patire che egli ha assunto accettando la soggettività del figlio. Si è fatto servo del figlio. Gli ha dato spazio ritraendosi. Ha agito efficacemente scegliendo di non agire.
L'intera riflessione di Luciano Manicardi a questo link:
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