È l'invito a cambiare il modo di concepire la propria vita e le relazioni che intratteniamo con gli altri, cambiamento di mentalità che faccia di queste tragedie delle occasioni di solidarietà e di amore
Fatti di cronaca: violenze di un potere tirannico, per il quale gli esseri umani sono solo casi, numeri o addirittura merce; disastri casuali o criminali, crolli di torri, di ponti o di case. Sembra di leggere ciò di cui si nutrono i nostri giornali, benché non sia ciò che effettivamente riempie il nostro quotidiano. Inoltre, le notizie giornalistiche si accontentano di riferire gli eventi, tutt’al più cercano i colpevoli per trascinarli davanti ai tribunali. Ma le vittime ben presto sono dimenticate. Invece Gesù si interessa ad esse: perché loro?
Era allora normale vedere in simili eventi la punizione di una colpa, e nella felicità la ricompensa del giusto. Non diceva forse il Salmo: “Ero giovane e ora sono anziano: non ho mai visto il giusto abbandonato né i suoi figli mendicare il pane”? O: “Ho visto il malvagio trionfare …; sono ripassato ed ecco, non c’era più, l’ho cercato e più non l’ho trovato” (Sal 37,25.35-36). Anche gli amici di Giobbe non cessano di ribadire lo stesso pensiero. Fosse vero!
Ma Giobbe e Qohelet, che gli fa eco, contestano fondamentalmente questo teorema. Sono precursori dell’insegnamento di Gesù.
No, le catastrofi non sono punizioni di Dio per qualche colpa commessa dalle vittime. In realtà non c’è spiegazione, neanche da parte di Gesù; l’origine del male e la scelta delle vittime restano un enigma. Ma ciò non implica che non si possa dare ad esse un senso.
Da un lato sono manifestazioni di un male che invade le nostre esistenze e si insinua ovunque, in tutte le realtà della nostra vita, personali, comunitarie, nazionali, mondiali, politiche, religiose… e persino sportive.
Allora questi eventi drammatici costituiscono, d’altra parte, un ammonimento: queste vittime non erano più peccatrici degli altri, né di voi né di noi, e quindi: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (v. 5).
Ciò non vuol dire che la conversione ci eviterà sicuramente di subire la loro stessa sorte, ma che ciò che è capitato a loro non sarà stato – almeno per noi – inutile: ci avrà incitati alla conversione, che però non si identifica solo con la celebrazione del rito penitenziale o della riconciliazione; conversione è invece cambiamento nel modo di concepire la propria vita e le relazioni che intratteniamo con gli altri, cambiamento di mentalità che faccia di queste tragedie delle occasioni di solidarietà e di amore.
Altrimenti siamo come quel fico che il proprietario ha trovato, tre anni di seguito, senza alcun frutto: siamo solo alberi sterili che sfruttano invano il terreno.
Ma anche se fossimo tali, non ci sarebbe ancora da disperare, perché c’è il vignaiolo – il Cristo –, il quale non si rassegna a vedere tagliato quell’albero. Egli si impegna a fondo, fino a dare la vita per noi, pur di non doverci tagliare… Anzi, anche alla fine, quando non c’è umanamente più niente da sperare, si rifiuta addirittura di procedere: “Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai” (v. 9), cioè: “Io non lo taglierò ma, se ci tieni, lo farai tu, tu che questo albero-essere umano hai creato”.
(Daniel Attinger)
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