Ne Gesù ne i discepoli possono ignorare i fatti della vita. Ne sono interpellati. E sono chiamati a un discernimento e a un giudizio. A una lettura di fede che non può rimane estranea ai fatti di quel mondo che è il destinatario della cura e della sollecitudine di Dio.
E il giudizio che Gesù è libero, svincolato da credenze teologiche diffuse e luoghi comuni spirituali. Gesù spezza il legame tra peccato e disgrazia: egli non vede dei peccatori, ma degli umani, non va in cerca di un colpevole, ma vede la vittima del male.
Gesù dunque avverte che si può imparare dagli eventi. Il fatto della morte di alcuni diviene avvertimento per altri: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”. In fondo anche la parabola del fico improduttivo pone un problema analogo. Questo albero di fico è vivo, ma in realtà è morto, visto che non produce nulla. Facendo il parallelo con altri testi lucani possiamo dire che è nella condizione di ciò che è perduto, morto, ma che suscita l’interesse del Signore che va in cerca e salva ciò che era perduto (Lc 19,10: Zaccheo); è nella condizione del figlio minore della parabola che, dice il padre, “era morto, ed è tornato in vita” (Lc 15,32); o possiamo pensare anche al malfattore sulla croce, un condannato a morte a cui Gesù promette: “Oggi sarai con me in paradiso” (Lc 23,43). Siamo di fronte alla narrazione della pazienza del Signore che non vuole morte ma conversione, e per questo si sottomette ai tempi dell’altro. Se l’annuncio del Battista diceva che ormai la scure è posta alla radice degli alberi e ogni albero che non produce buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco (Lc 3,9), qui alla logica della scure e del taglio si oppone la logica del lavoro, della pazienza e dell’attesa. Il lavoro del contadino appare qui come una terapia, un’opera di guarigione, un lavoro che cerca di ottenere la guarigione di un albero che è infruttifero da molto, troppo tempo. Forse non è un caso che subito dopo la parabola del fico infruttuoso da tre anni, Luca riporti un racconto di guarigione, quello della donna che era inferma da diciotto anni (Lc 13,10-13).
Dunque, di fronte al padrone della vigna che gli comanda di tagliare l’albero, il contadino dice di no. Oppone quel lascialo, àfes, che è il verbo usato anche per indicare la remissione dei peccati e la liberazione dal male.
L'intera riflessione di Luciano Manicardi a questo link:
https://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/15008-non-la-morte-ma-la-conversione
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