III Domenica di Quaresima - Lc 13,1-9

Il nostro è un Dio paziente che dissoda il terreno, la nostra vita e la “concima”, che “perde tempo” per noi, che per primo si “converte” a noi, cioè si volge a noi, si piega su di noi, ci viene incontro perché noi possiamo fare altrettanto verso di lui, facendo nostro il suo modo di essere, di fare e, in questo modo, portare molto frutto.


Se la prima Domenica della Quaresima ci ha indicato quelle situazioni alle quali dobbiamo porre attenzione per non trovarci sballottati di qua e di là dal diavolo che cerca di dividerci dal Padre, la seconda Domenica ci ha mostrato sul volto di Gesù ciò a cui siamo chiamati: divenire come lui, trasparenza della gloria di Dio, riflesso della sua vita. 

In questa terza Domenica, nella quale inizia in senso stretto il percorso specifico che quest’anno liturgico intende farci fare accompagnandoci verso la Pasqua, il brano evangelico ci immette nel tema proprio di questa Quaresima.

Gesù ha appena concluso una riflessione sull’interpretazione della realtà che si vive ed incontra “alcuni” che gli portano a Gesù la notizia di una strage ordinata da Pilato, forse contro un gruppo zeloti galilei. Non si hanno notizie di questo evento da altre fonti, ma se ne conoscono diversi di simili, come di quel massacro di samaritani ai piedi del Monte Garizim narrato da Giuseppe Flavio, che costò il posto a Pilato che fu richiamato a Roma.

 

Questo fatto di cronaca offre a Gesù l’occasione di precisare il suo pensiero e lo fa affiancandovi quello del crollo della torre di Siloe che provocò 18 morti.

Gesù è attento a quanto gli accade attorno e gli permette di riflettere sul rapporto esistente tra Dio e gli eventi della storia. Questo rapporto esiste ma non nel modo che si immagina abitualmente. Non segue lo schema azione umana-retribuzione divina.  Quei Galilei, afferma Gesù, non erano più peccatori degli altri; le vittime della caduta della torre non lo erano più di tutti gli altri abitanti di Gerusalemme. I due eventi sono invece degli “ammonimenti”. La domanda corretta da porre non è: “perché loro?”, bensì: “perché non io?”. 

Tali fatti di cronaca non rivelano lo stato di peccato di quelle vittime. Le cronache di eventi naturali disastrosi, oppure come quelle che in questi giorni hanno fatto irruzione nella nostra vita con le immagini della guerra in Ucraina con il suo carico di vittime, distruzioni, profughi (dimenticandoci di tutti gli altri drammi che invece continuano…), non devono portarci a chiederci che cosa hanno fatto quelle popolazioni per subire quella o questa sorte, né accontentarci di ringraziare Dio che non sino capitate a noi. Sono eventi che devono piuttosto interrogarci su come noi ci poniamo di fronte alle ferite dell’umanità che vediamo. Da che parte stiamo? Non nel senso di quale esercito supportiamo, bensì ci sentiamo o meno interpellati da quello che vediamo, a farci carico del dolore di quell’umanità affranta e disorientata? oppure questo ci fa rinchiudere ancora di più nel nostro benessere? Stiamo dalla parte di Dio prendendoci cura con coscienza e intelligenza della realtà del debole e dell’offeso, oppure da quella dell’indifferente che cerca il pelo dell’uovo per potersi smarcare e rimanere aggrappato alle sue sicurezze? In questo senso i fatti di cronaca sono allora il tempo che il Signore ci concede per riflettere sulla nostra realtà e ritornare a lui con tutto il cuore. È questa e non altro, la “penitenza” alla quale la Quaresima ci chiama in modo particolare.

Questo è confermato anche dalla parabola del fico che siamo noi. A tempo opportuno il proprietario, cioè Dio, vieni a raccogliere i frutti. Delusione, ancora quest’anno - il terzo - l’albero è senza frutto. Arriva quindi la decisione: “taglialo!”. Quella che è stata la sorte dei Galilei e delle vittime della torre, è quello che dovrebbe accadere a noi. Interviene però il vignaiolo che dice tre cose: “lascialo ancora quest’anno!”. È il tempo dato per la conversione, allusione forse all’anno di accoglienza di Isaia che l’omelia di Nazareth aveva ricordato: vi è ancora spazio per il perdono. Aggiunge poi: “zapperò intorno e gli darò del concime”. Il vignaiolo si impegnerà a fondo per la sopravvivenza del fico. Infine: “altrimenti lo taglierai”, vale a dire lo taglierai tu stesso, non io! 

Così Gesù narra la relazione che c’è tra Dio e la sua proprietà: il popolo di Israele, ma anche la Chiesa, mentre il vignaiolo è lui stesso. Siamo ancora in vita solo grazie alla sua intercessione, al suo impegno per noi fino al dono di sé stesso, al rifiuto che oppone a Dio di fare lui da boscaiolo che abbatte l’albero. 

A questo punto potremmo pensare che Gesù si contrapponga al Padre. Non è così: vuole solo farci capire che la nostra morte non fa parte della volontà di Dio: ci ha fatti perché viviamo, non solo in questa vita, ma anche nel “giorno che è interamente Shabbat” cioè nel suo Regno.

Il nostro è un Dio paziente che dissoda il terreno, la nostra vita e la “concima”, che “perde tempo” per noi, che per primo si “converte” a noi, cioè si volge a noi, si piega su di noi, ci viene incontro perché noi possiamo fare altrettanto verso di lui, facendo nostro il suo modo di essere, di fare e, in questo modo, portare molto frutto.

Simbolicamente la Quaresima è proprio il tempo che Dio non si stanca mai di concedere, perché l’uomo e la donna possono convertirsi e soprattutto – è questo il presupposto di ogni vera conversione - ritornare dalle loro false immagini di Dio.

(BiGio)

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