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IV di Quaresima – Lc 15,1-3.11-32

Due fratelli, una richiesta di indipendenza e un padre che supplica 


Il tema che questa Quaresima ci propone, ha iniziato ad affacciarsi con chiarezza domenica scorsa. Innanzitutto avvertendoci che è necessario osservare con attenzione a quanto ci accade attorno, osare la fatica di viverlo e il rischio di interpretarlo, perché Dio ci chiedere di vivere “in questo mondo”, non fuori da esso (Tt 2,12), cercando i germogli di Risurrezione e del suo Regno che ha seminato ovunque, anche nelle situazioni più difficili e tragiche.  
Siamo stati posti di fronte alla narrazione della pazienza del Signore che non vuole morte ma conversione e, per raggiungere questo suo obiettivo, giunge a sottomettersi ai nostri tempi. Alla logica della scure e del taglio prospettato dal Battista, Gesù ha opposto la logica del lavoro, della pazienza e dell’attesa. Il lavoro del contadino attorno al fico sterile appare come una terapia, un’opera di guarigione. Il fico era vivo, ma in realtà era morto perché non produceva nulla. Il Signore va in cerca e salva ciò che era perduto (come Lc 19,10: Zaccheo) o è nella condizione del figlio minore della parabola di oggi che, dice il padre, “era morto, ed è tornato in vita”.

Quel figlio più giovane che gli aveva chiesto la parte di “averi” che gli spetta. Il termine greco usato (ousìa) letteralmente significa “essenza” oppure “sostanza”, il figlio chiede cioè di poter “essere”, di avere una sua vita. È una richiesta di indipendenza alla quale, in una qualche misura, tutti abbiamo aspirato e che chiediamo ai giovani di far propria. In sé stessa è una richiesta legittima e, infatti, il padre non obietta nulla ma procede a dividere equamente a metà tra i due figli quanto possiede, spingendo così anche il maggiore ad assumersi la responsabilità di avere una sua vita. Il Padre dà loro quanto serve per vivere (il termine greco usato per i “beni” dati ai figli è bìos, cioè la “vita”) e poter, in autonomia, scegliere in piena libertà. In fin dei conti i figli sono come delle frecce che vanno lanciate per poter svolgere il loro compito (Ps 127).

 

Il figlio minore se ne va e “disperde” tutto quello che prima aveva “raccolto” perché sceglie di vivere in modo “dissoluto” scivolando fuori da quanto il padre gli aveva consegnato (insegnato): un modo di vivere all’interno di un progetto di vita di un popolo, di una Alleanza al servizio del Signore. Quell’essersi posto al servizio di un pagano in mezzo ai maiali significa l’essersi allontanato dal mondo ebraico, rinunciando di appartenervi.

Scopre e sperimenta la solitudine in mezzo a un mondo avverso e lo assale la fame, forse non solo di pane, ma anche di ciò che esce dalla bocca di Dio. Un detto rabbinico dice: “Gli israeliti, quando hanno bisogno di carrube, fanno conversione”. È quanto accade al giovane che “ritorna in sé”, capisce e prende coscienza della distanza esistente tra la sua situazione e il progetto del padre: la possibilità (per ambedue i fratelli) di vivere in “pienezza”.

Inizia allora il ritorno verso la casa del padre “alzandosi”, cioè rimettendosi diritto in piedi mentre prima era accasciato, ripiegato su sé stesso. Il verbo usato, è quello della resurrezione: è una nuova nascita che lo fa scorgere dal padre quando era ancora lontano, proveniente da quella terra dove si era reso “straniero”.

 

Il figlio maggiore non ha abbandonato la casa familiare, ma la sua reazione al rientro del fratello rivela che tra lui e il padre esiste una distanza diversa ma altrettanto forte da quella realizzata dal fratello. Anche lui sogna una “libertà” fuori da casa, senza il padre. Al pari del fratello ha sempre avuto la disponibilità di realizzarla ma non ne ha mai avuto il coraggio. È sempre rimasto in casa in un atteggiamento di passiva sudditanza per paura della libertà donatagli; per questo, invidia il fratello e la sua reazione è quasi violenta. 

Anche la sua realtà, la sua situazione non è conforme al progetto del padre che desidera che i figli siano responsabili della loro vita in autonomia. Rientrerà anche lui in casa a festeggiare? Non lo sappiamo. La sua realtà forse è peggiore di quella del fratello perché ha smarrito la gioia, non sa più fare festa e, soprattutto non riesce a rallegrarsi dell’amore del padre nel quale certamente crede, ma che limita entro i confini del suo personale senso di giustizia esclusivamente retributivo.

 

Il padre è figura centrale. Corre incontro al figlio che sta rientrando, non gli fa terminare il discorso che si era preparato e si affretta a ristabilirlo in tutti i suoi diritti: l’anello, la veste non banalmente la più bella, ma quella (di) “prima” perché qui viene richiamata quella insanguinata di Giuseppe venduto dai fratelli che Giacobbe aveva custodito con affetto …, coinvolgendo i servi nella riabilitazione del figlio e fare festa. Nei suoi confronti non fa nessun rimprovero, nessuna domanda, non chiede nessun risarcimento. Solo la gioia del ritrovamento e usa il linguaggio della resurrezione “era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. 

 

La festa inizia e qui il padre si comporta in modo inatteso: esce dalla sala a supplicare il figlio maggiore di entrare. Questo suo gesto di affetto corrisponde alla corsa che aveva fatto quando aveva da lontano visto il ritorno dell’altro figlio: continua ad amarli entrambi nello stesso modo. È necessario che entri anche lui a fare festa ricomponendo l’unità della comunione che era rimasta ferita.

 

È questo che cerca di far capire Gesù ai suoi interlocutori: peccatori e pubblicani gli si avvicinano per ascoltarlo; farisei e scribi – rispettivamente i credenti e i religiosi di quel tempo - mormorano perché Gesù accoglie i primi e siede a mensa con loro. Dalla parabola siamo guidati a discernere il nostro modo di stare davanti a Dio, la nostra sintonia con il volto del Padre che Gesù è venuto a rivelarci e che non ha la scure in mano pronto ad usarla. Ogni falsa religiosità è messa con le spalle al muro e ci obbliga a prendere posizione: rimanere chiusi nella nostra immagine di Dio o aprirci al liberante volto di misericordia del Padre che ci supplica, di considerarci figli e non servi, di entrare nella sua gioia perché anche la nostra sia piena.

 

(BiGio)

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