Il Papa in Grecia e a Cipro dal 2 al 6 dicembre

L’isola di Cipro è la terra di San Barnaba, nato a Pafo e qui ritornato per l’annuncio della Pasqua del Signore Gesù. È divenuta, secondo la tradizione orientale, la nuova patria per Lazzaro, resuscitato da Gesù, poi trasferitosi a Cipro per divenire vescovo di Cizio (oggi Larnaca). In Grecia l’apostolo delle genti, San Paolo, ha lasciato indelebili tracce. Filippi è stato il primo luogo evangelizzato in Europa e proprio a partire dalla Grecia il cristianesimo si è diffuso in tutto il continente europeo.

Le tappe del viaggio apostolico sono Nicosia, Larnaca, Atene, e Lesbo, dove il Pontefice si è già recato nel 2016 per incontrare migranti e rifugiati nel campo di Mòria. 

Francesco a Lesbo nel 2016

Il viaggio di Papa Francesco in Grecia non può non richiamare alla mente il viaggio compiuto da san Paolo verso l’anno 50 da nord a sud del Paese con le varie tappe a Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto. Di lui abbiamo anche le importanti lettere ai Filippesi, ai Tessalonicesi, e ai Corinzi. Curiosamente egli non scrisse agli Ateniesi, ma il racconto di Luca negli Atti degli Apostoli (cfr. Atti 17, 16-34) ci documenta un discorso tenuto proprio ad Atene e privo di analogie con il suo soggiorno nelle altre città. Proprio questo discorso merita una attenzione particolare, non solo perché tenuto nella metropoli greca più carica di storia, ma anche perché, oltre alla sua impostazione, è interessante il luogo in cui avvenne, cioè l’areopago, noto consiglio amministrativo della città che aveva già processato Socrate nel 399 avanti Cristo.

Per la verità, l’intervento di Paolo all’areopago fu occasionale. Egli infatti mirava di preferenza a un contatto non tanto elitario o selettivo quanto di tipo generale e per così dire misto. In effetti Paolo ad Atene aveva stabilito due punti per la sua attività evangelizzatrice: la sinagoga, conforme alla propria matrice giudaica, e soprattutto l’agorà, cioè la piazza, dove poteva incontrare gente di ogni sorta. Proprio là incontrò due diverse reazioni: alcuni lo qualificarono negativamente come «ciarlatano» (spermològos), altri più desiderosi di capire il suo pensiero lo invitarono appunto al luogo più riservato dell’areopago.

Ebbene, detto in sintesi, il discorso di Paolo all’areopago propone due istanze concrete ed esemplari, che richiedono anche oggi una ripresa dello stesso stile. La prima riguarda il contatto diretto con “gli altri, i diversi”, cercandoli magari là dove essi sono, superando ogni chiusura contro uno stagnante senso di autosufficienza. La seconda istanza è un corollario della precedente e si basa sulla citazione del poeta greco Arato circa il rapporto naturale con Dio: «Di lui noi siamo stirpe» (Atti 17, 28); questo comportamento simpatetico esprime la necessità della inculturazione del vangelo come semplice componente dell’incarnazione. La frequentazione dell’agorà e dell’areopago da parte di Paolo diventa perciò metafora di ogni intelligente tentativo di immettere l’annuncio evangelico nei canali della vita culturale degli uomini. Non si tratta dunque di mettersi i paraocchi per conoscere soltanto la Bibbia o il Credo, ma occorre altrettanto stare a contatto con le espressioni di ogni umana cultura.

Occorre comunque fare i conti con quella che possiamo chiamare la alterità del Vangelo, in quanto irriducibile a una religiosità naturale. L’annuncio delle sue specificità, come la risurrezione di Gesù e la sua prospettiva escatologica, all’areopago si scontrò con una inaspettata ma inevitabile opposizione: «Su questo ti sentiremo un’altra volta» (Atti 17, 32). L’importante però è tener fede al Vangelo della grazia e della libertà, poiché non è certo la negazione che possa dimostrare la falsità dell’annuncio. Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, i testimoni della Parola sono più deboli dei propagatori di un’idea e soffrono con la Parola, purché la loro debolezza sia quella della Parola stessa e non l’abbandonino mai.

L’importante è considerare l’esperienza di Paolo come metafora di tutte le occasioni e luoghi possibili di confronto tra Vangelo e cultura. Però va precisato che, se all’areopago si giunge solo su invito o per un cortese trascinamento, non sempre e non a tutti è possibile accedervi. Nell’agorà, invece, per natura sua più aperta, Paolo poteva parlare con chiunque incontrasse. L’areopago richiama l’idea di un ambito riservato e persino aristocratico, mentre invece l’agorà propone l’idea di un ambito popolare, democratico, comune luogo d’incontro. Del resto è dall’agorà che si comincia: ciò che fa audience nell’agorà finisce prima o poi per approdare in un areopago. In fondo, la Galilea profonda era stata l’agorà per Gesù e il Sinedrio di Gerusalemme il suo areopago che però lo aveva condannato. È vero che non si può sempre parlare a tutti indistintamente, e se alla fine del discorso di Paolo almeno due persone come Dionigi e Damaris aderirono a Paolo e divennero credenti (Atti 17, 34), è segno che l’impegno apostolico non è mai senza un qualche risultato.

Ebbene, anche oggi il cristiano è chiamato a rendere testimonianza della sua fede in una agorà vasta come l’intera società, tra cui certo emergono ambiti più dettagliati. L’importante è di non fruire privatisticamente della propria fede, ma di confrontarla senza prevaricazioni e offrirla con gioiosa umiltà. In questo senso gli Atti degli Apostoli non sono mai terminati e per ciascun battezzato valgono sempre le parole rivolte dal Signore a Paolo dopo Damasco, cioè di essere uno strumento eletto per portare il nome del Signore davanti ai popoli (cfr. Atti 9, 15).

(Romano Penna)

da L'Osservatore Romano del 30 novembre


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