È bene ricordare che il vangelo è un racconto, una narrazione. Non un trattato teologico, ma una storia. Il proprio del racconto è di prenderci per mano e di introdurci al suo interno rendendoci in certo modo contemporanei dei fatti raccontati. Il modo biblico di esprimere la fede è la narrazione e se l’evangelista è un narratore, egli non fa che proseguire ciò che ha fatto Gesù, anch’egli grande narratore che ha “detto” Dio raccontando parabole, forgiando immagini capaci di parlare a tutto l’uomo: corpo, anima e spirito. Il genere letterario “vangelo” è dunque uno scritto che postula un rapporto particolare con il lettore chiedendone il coinvolgimento, sollecitandone la decisione di fede, conducendolo a conformare il proprio cammino esistenziale a quello di Gesù. Leggere il vangelo è immettersi all’interno di una storia, la storia di Gesù, per proseguirne la narrazione con la propria vita.
Oranoi siamo abituati a leggere il vangelo. Ma il testo odierno ci parla di un uomo che ha deciso di scriverlo. O, meglio, di scrivere ciò che solo più tardi (nel II secolo) sarà chiamato “vangelo”. Noi, per impregnarci maggiormente della parola evangelica che con la sua potenza arriva a muovere il nostro braccio e a guidare la nostra mano, possiamo tutt’al più ri-scriverlo, copiarlo, ma qui siamo di fronte a un uomo che ha deciso di scrivere un vangelo ex novo. Come procede? Anzitutto, impegna sé stesso (“anch'io ho deciso”: Lc 1,3), ma resta nell’anonimato, lascia che emerga la storia narrata mentre lui sparisce dietro la propria opera. Quindi riconosce di non essere né l’unico né il primo che si è deciso a tale impresa e si accoda a quanti lo hanno preceduto nell’opera di scrivere un racconto degli eventi “che si sono compiuti in mezzo a noi” (Lc 1,1). Dichiara poi di aver condotto il suo lavoro con rigore informandosi accuratamente dei fatti, consultando le fonti disponibili, insomma mettendosi a servizio della verità con una vera e propria fatica ascetica (Lc 1,3). Infine, esprime la finalità del suo lavoro: è un lavoro non fine a sé stesso o a dar gloria all’autore, ma relazionale, che ha un destinatario, quel Teofilo dietro cui si intravede ogni cristiano “amante di Dio” (Lc 1,3), e che ha il fine di conferire saldezza all’annuncio già ricevuto (Lc 1,4). La parola scritta manifesta così la sua duplice ancillarità: nei confronti degli eventi storici e nei confronti dell’annuncio che di essi viene fatto dagli evangelizzatori. I vangeli scritti sono a servizio della parola orale uscita dalla bocca di Gesù di cui sono divenuti testimonianza, e sono a servizio dell’annuncio orale fatto dagli evangelizzatori di cui costituiscono l’imprescindibile fondamento. L’evangelista è dunque “ministro della Parola” ponendosi a servizio della parola tanto nella sua forma scritta quanto orale. E in definitiva il suo servizio è a Gesù stesso, colui dalla cui bocca uscivano “parole di grazia” (Lc 4,22), colui che è la parola di Dio fatta persona. Il vangelo come “libro” conferisce solidità all’annuncio cristiano anzitutto con la stessa forma scritta che strappa la parola alla sua volatilità donandole visibilità, consistenza e durata, quindi interpellando il lettore di ogni epoca e chiedendogli di colmare il silenzio di cui la scrittura è portatrice e di riempirlo con la sua parola, con il suo annuncio, con la sua testimonianza. Perché avvenga il passaggio, attraverso la parola scritta del vangelo, da “ciò che Gesù fece e insegnò” (At 1,1) a ciò che fanno e dicono i suoi discepoli, i cristiani. Affinché ogni cristiano possa scrivere il vangelo con la propria vita.
(Luciano Manicardi)
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