La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, iniziata con la giornata per il dialogo con l’ebraismo, termina con la festa della «Conversione di San Paolo». Ma Paolo si è convertito? No, Paolo non si è convertito! Paolo non è passato da una religione ad un’altra. Per lui anzi, l’incontro con il Messia Gesù, è stato il modo per vivere fino in fondo la fede dei suoi padri. Questo è un aspetto fondamentale, che ci deve condurre a purificare il nostro linguaggio, non solo per vivere veramente il dialogo con l’Ebraismo, ma anche per comprendere fino in fondo la nostra fede in Gesù il Messia.
Possiamo dire che Paolo si è «convertito» non se pensiamo alla conversione da una religione ad un’altra – cosa totalmente estranea all’Apostolo delle genti – ma se si comprende l’esperienza della conversione come ne parlavano i profeti di Israele: un ritorno a Dio e alla sua Parola. Ma allora questa «conversione» è anche la nostra, quella che dovremmo vivere ogni giorno. Questa festa potrebbe essere chiamata così: «Vocazione di Paolo», oppure «Manifestazione di Gesù il Messia a Paolo». Questo incontro per Paolo ha costituito l’inizio di una vita nuova; qualche cosa che ha gettato all’aria la sua esistenza… non però come la conversione da una fede ad un'altra, ma come un modo per vivere, per lui, in pienezza la propria fede, la fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Il racconto degli Atti degli Apostoli descrive questo incontro che ha cambiato la vita a Paolo (At 9,1-22). È un episodio che Luca racconta diverse volte negli Atti (cf. At 22,3-16). All’inizio c’è solo Paolo: è lui che minaccia stragi, chiede al sommo sacerdote lettere per perseguitare i discepoli di Gesù e per condurli a Gerusalemme per essere giudicati. Nei primi versetti quindi (vv. 1-2) Paolo è il padrone di ciò che accade, il protagonista assoluto, ha lui in mano la situazione.
Ma poi accade qualche cosa di inatteso: una luce e una voce. Per Paolo l’incontro con Gesù è stato un essere «gettato a terra»: Paolo è stato «atterrato» da Gesù, quasi come un confronto corpo a corpo nel quale lo zelante difensore della fede dei padri è stato «atterrato» da Dio. È quando crediamo di essere noi i «difensori di Dio», che Dio ci «atterra» e ci fa comprendere di non aver bisogno di difensori. L’uomo che prima aveva in mano tutto ora si deve far accompagnare per mano da coloro che erano con lui. Egli deve passare dalla sua pretesa di autonomia assoluta, all’assoluta dipendenza di chi ha bisogno di tutto e di tutti, perfino di essere accompagnato per mano (cf. At 9,8).
A questo punto entra in scena Anania, un pauroso discepolo che obbedisce alla parola del Signore. Lo spavaldo Paolo è risanato dall’umile Anania, che, pur avendo paura della fama del persecutore, compie la missione che il Signore gli assegna. Paolo è risanato da questo incontro: un testimone che gli mostra il volto della docilità a Dio e alla sua Parola. Anania rappresenta la mediazione della comunità dei discepolo che diventa un luogo di guarigione, dove è possibile riavere la vista. Quando Paolo era autosufficiente e credeva di vedere, il Signore gli ha fatto toccare la sua cecità; nell’incontro con Anania e con la comunità dei discepoli invece Dio gli ha mostrato la vera capacità di vedere.
Dopo questo incontro Paolo ricomincia a camminare con le proprie gambe, può vedere veramente. È l’esperienza che a volte nella vita occorre essere «atterrati» nelle proprie false sicurezze per poter vedere veramente e diventare Apostoli: non annunciatori di noi stessi ma di Dio.
Ecco il cammino di Paolo, che è il nostro cammino di discepoli di Gesù. Paolo non si è convertito… non aveva nessun bisogno di convertirsi. L’incontro con Gesù lo ha «atterrato» per insegnargli a vivere pienamente la fede dei padri.
Anche noi impariamo da Paolo oggi l’itinerario per diventare vedi discepoli, accogliendo come grazia anche quei momenti nella vita in cui veniamo «atterrati» per poter vedere veramente.
(Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli)
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