«In quel giorno, / in quell’ora – scrive Pablo Neruda – leverò in alto le braccia / e le mie radici usciranno / a cercare altra terra». Tanto più oggi nel mezzo di una pandemia infinita, tentati di mollare la presa del Cielo.
Ho trascorso gli ultimi mesi dell’anno 2021 nel monastero benedettino di Dumenza, in provincia di Varese. Durante le preghiere in cappella, in particolare per la recita del Padre Nostro, i monaci si voltano verso l’altare. In questi mesi, in cappella, mi trovavo spesso dietro fratel Andrea che voltandosi per la recita della preghiera di Gesù, mi dava le spalle. Lo osservavo da dietro. Solitamente, recitando il Padre Nostro, apriamo le braccia e le mani come per ricevere un dono o accogliere un amico. Andrea invece le alzava più in alto, compiendo il gesto tipico di chi si arrende di fronte a qualcuno. Da dietro, quelle braccia alzate e quelle mani spalancate, tese verso l’alto, mi sembravano non solo la sua quotidiana resa al mistero di Dio, ma anche e soprattutto radici tese verso l’alto, alla ricerca di un’altra terra, desiderose di aggrapparsi al Cielo. Pablo Neruda in una sua poesia evoca un gesto molto simile. «In quel giorno, / in quell’ora – scrive il poeta – leverò in alto le braccia / e le mie radici usciranno / a cercare altra terra». Come Andrea le cui braccia e le cui mani, alzate in preghiera, mi apparivano come radici tese nell’atto di attingere a «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia» (2Pt 3,13).
Quel gesto ripetuto tutti i giorni, questa fine d’anno, il tempo che scorre e un brano di Vangelo che racconta della profetessa Anna, proposto dalla Liturgia lo scorso 30 dicembre, mi hanno fatto intuire che vi è un rapporto fra il tempo e il tempio....
L'intera e intensa riflessione/testimonianza di p. Alberto Caccaro del Pime a questo link:
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