Sdegno per un Dio che non si adatta

Bisogna vincere ogni paura anche quando questo ci costa e ci spaventa.


Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria
. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro» (Lc 4,24-27)

E Gesù propone ad esempio due stranieri, la vedova di Sarèpta e Naamàn il Siro. A loro, due stranieri senza diritti e che non possono vantare nessuna esclusiva, Dio si fece vicino attraverso Elia ed Eliseo. Ma non si tratta solo di questo. Dio può accoglierlo solo chi, piuttosto che pretendere qualcosa, è disposto a mettere ogni cosa in gioco.

La vedova non ebbe paura di mettere a rischio la sua sopravvivenza, donando quel poco che le restava per vivere. Nel dono dell’ultima farina e dell’ultimo olio ella si affida al Dio della vita. E Naamàn il Siro non si preoccupò di salvare la fama, le sue idee e le sue teorie. Con molta fatica, accettò di fare ciò che a lui sembrava ridicolo, del tutto insensato e privo di ogni ragione.
In loro non c’è pretesa e non c’è privilegio, c’è solo il coraggio di mettersi in gioco, di accogliere una parola che non è compresa, di mettere a rischio la vita e la fama per obbedire alle parole dei due profeti.
 
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino (Lc 4,28-30)

E la meraviglia si trasforma in sdegno. Ed è sempre facile provare sdegno quando si scopre che Dio non è “nostro” e non ci appartiene. Egli ci supera e ci invita ad andare oltre, a superare i nostri cortili, ad abbattere le nostre chiusure. Credere in Dio non è possederlo, non è rinchiuderlo nei nostri forzieri. Dio non ha patria e stana tutti quelli che pensano di possederlo e di essere già arrivati, li provoca e li costringe ad uscire fuori, a decidersi se mettersi in cammino con lui o se lasciare che sia lui, passando in mezzo, ad andare oltre lasciandoli soli. 

In fondo, forse, è per questo che proviamo ancora un po’ di sdegno per un Dio che non si adatta, che non segue il sondaggio e la moda, che non si adegua a ciò che vuole la gente, che non si piega ai nostri interessi. E anche noi siamo tentati di abbassare il tiro, di evitare problemi, di annunciare un Dio che si è accasato, che non ci provoca e non ci urta, che non ci scomoda e non ci stupisce. E dovremmo, invece, avere il coraggio di non arrossire del Vangelo, di non temere l’inimicizia del mondo. 

Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. (Ger 1,17-19)

Bisogna, con ogni profeta, vincere ogni paura, abbandonare ogni umano timore e avere il coraggio e la schiena dritta per accogliere Dio e la sua Parola. Anche quando questo ci costa e ci spaventa, quando ci lascia soli e ci fa sentire in minoranza. Non possiamo tacere ciò che ascoltiamo, non possiamo ignorare ciò che ci viene donato. Bisogna resistere alla tentazione di salvare se stessi, la propria fama e il proprio consenso, l’entusiasmo e l’approvazione.

E c’è un modo giusto per iniziare:
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1Cor 13,4-7)
(dalla riflessione di Marco Manco)

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