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I Domenica di Avvento - Mc 13,33-37

Vegliare, è un termine che colleghiamo istantaneamente a quando è buio mentre in questo Evangelo viene sottinteso non quando è notte, bensì quando si è nelle “tenebre”. È necessario allora innanzitutto prendere coscienza di quali siano le tenebre nelle quali siamo immersi, quali siano le “oscurità”.  



Oggi riprende il nostro cammino nell’attesa della venuta (non del “ritorno”!) del Signore in questo nuovo Anno Liturgico al cui centro c’è l’Evangelo di Marco con il compito di accompagnarci alla scoperta di chi sia Gesù.

La festa di Cristo Re, celebrata domenica scorsa, ha compiuto l’anno liturgico con l’invito a guardare avanti, al Signore glorioso che offre ai suoi fedeli la possibilità di raggiungerlo per condividere in eterno la sua vita. L’Evangelo proclamato offriva indicazioni su come vivere oggi e le precedenti domeniche più volte hanno invitato a rimanere attenti, a vigilare, a non addormentarsi, ad essere previdenti come nell’Evangelo delle 10 vergini in attesa dello sposo o quella dell’uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni in attesa della sua venuta. Negli Evangeli mai, in greco, si adopera il verbo “ritornare” riferito a Gesù perché mai se ne è andato. Certo non condivide più la nostra condizione in questo mondo, ma continua ad essere presente da Risorto fino al compimento del tempo nel quale “verrà” (questo è il verbo usato in greco), si manifesterà nella sua gloria. L’errore di traduzione è grave perché dà origine a quella errata interpretazione di un Signore che tornerà all’improvviso a chiedere conto di ciò che abbiamo fatto e si potrebbe andare incontro anche a un castigo terribile.

Tre volte oggi torna l’invito a vegliare, ma cosa significa? Anzitutto non cedere alla tentazione dell’aspettare rassegnati senza far nulla o abbandonarsi a sterili lamenti, a rimpianti, alla paura del futuro. Significa pure non cadere nel deprimente godiamo la vita finché c’è tempo o nell’affannarsi strafacendo, magari a spese altrui, per dimostrare di aver saputo realizzare qualcosa.

Chiede invece di impegnarsi senza affanni ma anche senza pigrizie a realizzare tutto il bene possibile; per dirla nei termini dell’Evangelo di due domenica fa': far fruttare i talenti che ci sono stati donati e affidati accogliendo il Signore nei volti degli ignudi, degli affamati, dei malati, dei carcerati, dei poveri, dei senza casa, dei migranti, degli oppressi, degli offesi … è questo il suo avvento, la sua venuta che siamo chiamati a cogliere nel nostro quotidiano. Sono loro il kairos, l’opportunità da cogliere, l’occasione da non perdere, il momento inatteso.

Come nella parabola dei talenti, anche nell’Evangelo di oggi c’è un uomo che parte dopo aver consegnato la responsabilità della casa ai suoi servi, ai suoi anawim, cioè a coloro che hanno accettato di seguire il suo esempio di vita. A ciascuno ha affidato un compito secondo le capacità (i carismi) di ciascuno e, al portiere quello “di vegliare”. Ci ha consegnato non il suo “potere” (come nella traduzione), bensì la sua “autorità”: il potere domina e può cadere nel dispotismo, l’autorevolezza al contrario è servizio, comunica, condivide, suscita vita, capacità di fare altrettanto in forme sempre nuove, originali, creative articolando i compiti di ciascuno nella solidarietà. Uno solo è lo Spirito donato ma molteplici sono le funzioni.

Ci è chiesto di vegliare, essere vigilanti e non addormentati” per essere pronti a cogliere la venuta dello sposo, con le lampade ricolme di olio per non rimanere fuori della porta della festa quando sarà chiusa. Quell’olio che è la preghiera e quell’agire sulle orme del Signore.

Rimanere attenti a non “dormire” significa non perdere il controllo di quanto accade, essere costantemente ancorati alla realtà, non perdersi dietro a sogni, alle mode o alle ideologie correnti.

Siamo invitati a vegliare, termine che colleghiamo istantaneamente a quando è buio mentre qui viene sottinteso non quando è notte, bensì quando si è nelle “tenebre”. È necessario allora innanzitutto prendere coscienza di quali siano le tenebre nelle quali siamo immersi, quali siano le “oscurità” esperienziali che ci circondano nella vita quotidiana, negli affetti, nella professione, negli errori commessi, nei ricatti ai quali siamo sottomessi, nella solitudine, nella malattia, nel dolore. Poi ci sono le ingiustizie, le violenze di ogni genere, le guerre con i loro morti di ogni genere spesso civili innocenti, la povertà, le nostre incoerenze con quanto pensiamo, crediamo, professiamo anche nella Chiesa, nella nostra Comunità, nell’incapacità di camminare assieme ma ancora troppo spesso delegando.

Ma è proprio in queste situazioni che non ci si deve abbandonare che, invece, ci è chiesto di rimanere attenti perché in ogni realtà il Signore è presente e ci è chiesto di individuarlo in quei germi di speranza al di là di ogni umana possibilità che ha disseminato con la sua morte (le tenebre) e la sua risurrezione, una speranza che è una certezza.

Il Signore non guarda il calendario, non attende il 25 dicembre per farsi a noi presente. L’Avvento non è la semplice attesa di una data, ma un vivere concretamente 365 giorni l’anno scoprendo la sua presenza in ogni tenebra, in ogni difficoltà, affidandosi a Lui.

(BiGio)

 

 

 

 

 

 

                                                                                  

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