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III Domenica di Avvento - Gv 1, 6-8.19-28

Una speranza che trova certezza nella testimonianza a chi è già in mezzo a noi per dare luce in un tempo offuscato dalle tenebre delle guerre, dall’esplosiva, contagiante e inaudita violenza



L’Avvento del Signore in questo anno di grazia 2023 è iniziato con l’invito a rimanere attenti perché questo può accadere all’improvviso in ogni vita, in ogni istante del nostro quotidiano, quando meno ce lo aspettiamo come è accaduto a Maria.

L’Avvento è sempre un inizio o, meglio, un “in principio” che rende nuova ogni cosa, che offre la possibilità di leggerle con occhi nuovi quando si ha avuto il dono ma anche la capacità di modificare il proprio modo di pensare e passare, dall’essere legati ai propri interessi personali, ad un rapporto con la realtà e il mondo che ci circonda improntato all’attenzione fattiva del bisogno dell’altro.

La figura di Giovanni il Battista ha poi invitato a “raddrizzare” la strada che il Signore compie per venire a noi come un pastore che raduna le sue pecore.

 

L’Evangelo di oggi approfondisce e riprende questo aspetto propostoci da Marco e se ne fa carico Giovanni. Questi due Evangelisti si alterneranno lungo tutto quest’anno esplicitandosi vicendevolmente.

Una prima pennellata ci presenta il Battista come “un uomo mandato da Dio”, non un altolocato bensì quasi uno qualsiasi che, come Maria, aveva compreso che aveva una missione da compiere incarnando la misericordia del Padre (questo è il significato del nome Giovanni), accolta nella fedeltà dell’ascolto della Parola attraverso la preghiera.

Un uomo”. Tutti gli uomini svolgono e hanno un compito; ci viene chiesto di renderci conto di quello che ci è stato affidato per “vivere” e non “lasciarsi vivere”.

La missione del Battista ritma il brano di oggi: “venne come testimone, per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”. Questo “lui” però non è Giovanni, ma Gesù che di sé stesso ha detto “io sono la luce del mondo. Chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12). A scanso di equivoci il Precursore lo specifica subito ed è un compito affidato a tutti i battezzati, quindi dovremmo chiederci se la nostra vita dà testimonianza alla luce che è Cristo.

 

È da sottolineare come Genesi e gli Evangeli di Marco e Giovanni inizino mettendo al centro la “luce”. È la prima cosa che il Signore crea e che i due evangelisti richiamano nelle prime righe dei loro libri contrapponendola alle tenebre che non riescono a soffocarla. Oggi viviamo un tempo offuscato dalle tenebre delle guerre, dall’esplosiva, contagiante e inaudita violenza che esprimono da tutte le parti in conflitto: uomini contro uomini, ma pure uomini contro la natura che fa fiorire una povertà assurda al posto della condivisione. Ma l’Evangelo è un invito ad una speranza che trova certezza in questi “In principio” … la luce rifulse e le tenebre non l’hanno vinta; è la testimonianza pure di oggi che anche noi siamo chiamati a dare.

Quando una persona, ma anche una Comunità, riesce a farlo è un’apertura alla vita; è il Signore che prima attira l’attenzione e poi l’adesione al suo modo di stare nel mondo. Infatti l’Evangelo la scorsa domenica annotava che tutti gli abitanti non tanto “accorrevano” (come nella nostra traduzione) da Giovanni, bensì “uscivano” dalla Giudea e da Gerusalemme per andare a farsi battezzare. Cioè tornavano nel deserto al di là del Giordano come ci dice l’Evangelo di oggi, lasciando i luoghi deputati del potere politico e religioso; quasi a significare la necessità di un nuovo percorso dalla schiavitù al servizio, come quello percorso guidati da Mosè.

Ovvio che i maggiorenti del Tempio e della società erano preoccupati; quindi vanno per capire chi sia questo personaggio che sottrae loro le folle sottomesse. Le risposte di Giovanni si fanno via via sempre più incisive e sintetiche per giungere a un semplice “no”: lui non è Elia (che doveva tornare prima del Messia), non è il Profeta (quello che Mosè aveva promesso sarebbe stato inviato ed al quale era sempre riservato un posto vuoto nelle Sinagoghe e nel Tempio) e non è nemmeno il Cristo. Anche questa è una testimonianza di Giovanni, non tanto di umiltà, ma della piena coscienza della sua realtà e della sua missione che gli impedisce di spacciarsi per un altro. “Chi dunque sei?”. La sua risposta è precisa ma qui è necessario premettere una attenzione: la traduzione italiana gli fa dire “Io sono…” mentre in greco non c’è il verbo perché quell’allocuzione (in greco sarebbe “Egoimi”) è l’inizio del Tetragramma, del nome di Dio ed è a lui sono riservato. Infatti Giovanni dice solo “Iovoce che grida nel deserto”, cioè metto a disposizione la mia voce per proclamare la Scrittura, testimoniandola in una vita di penitenza e conversione.

Lo fa anche dichiarando nuovamente che, a chi è già in mezzo a loro (in mezzo a noi!), non è degno di sciogliere il sandalo, perché è Lui, Gesù, lo sposo (di Israele e della Chiesa) e sta venendo: ma come, non ve ne accorgete? (Is 43,18)

(BiGio)

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